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Appuntamenti

 

Consulta questo link per la Presentazione Convegno dicembre di Clotilde Barbarulli

 Al Convegno “Diffrattivamente, con amore. Per condividere ancora le eredità plurali di Liana Borghi” partecipano: 

Elena Biagini 

militante lesbica (in particolare in Azione gay e lesbica e Facciamo Breccia), insegnante, ricercatrice indipendente, laureata in Lettere a Firenze con una tesi in glottologia, ha conseguito il dottorato di ricerca in Studi di Genere alla Sapienza di Roma con una tesi di storia. Nel 2018 ha pubblicato L’emersione imprevista. Il movimento delle lesbiche in Italia negli anni ’70 e ’80, nel 2019 ha scritto l’introduzione alla nuova edizione del testo di M. Spolato, I movimenti omosessuali di liberazione. Ha pubblicato diversi articoli tra cui «R/esistenze. Giovani lesbiche nell’Italia di Mussolini» in Fuori della norma. Storie lesbiche nell’Italia della prima metà del Novecento, a cura di L. Passerini e N. Milletti, 2007, «Family Problems: Debates over Coupling, Marriage, and Family within the Italian Lesbian Community, 1990s» in Zapruder World, 2015, Family Problems: Debates over Coupling, Marriage, and Family within the Italian Lesbian Community, 1990s – Zapruder World; «Gay is healthy! La lotta contro la patologizzazione del movimento omosessuale negli anni ‘70» in Storia e problemi contemporanei, 2016; «Sottosotto: contraddizioni manifeste. La critica lesbofemminista al pensiero della differenza»in Diacronie, 47, 2021, 6/ “Sottosotto”: contraddizioni manifeste. La critica lesbofemminista al pensiero della differenza – Diacronie (studistorici.com).

Giada Bonu

Sarda ma trapiantata in Continente, è attivista femminista, parte dell’assemblea di Non Una di Meno – Firenze, della redazione della rivista femminista DWF dal 2016 e del gruppo di ricerca Filosofia de Logu sugli approcci postcoloniali allo studio della Sardegna. Dopo il Master in Studi e Politiche di Genere ha conseguito il dottorato presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociologia della Scuola Normale Superiore ed è parte del Centro di ricerca sui movimenti sociali (COSMOS). Attualmente è assegnista di ricerca presso la Scuola Normale Superiore nel progetto Horizon2020 FIERCE – Feminist Movements Revitilizing Democracies. Le sue ricerche si focalizzano sulla relazione tra movimenti femministi e spazio urbano con particolare attenzione alle metodologie partecipative.

Dal 2021 è inoltre parte del consiglio scientifico della sezione Studi di Genere di AIS (Associazione Italiana Sociologia) e dirige, insieme a Nicolò Bertuzzi e Jacopo Custodi, la collana “Il cantiere delle idee” per Castelvecchi editore.

Elena Bougleux

 è professoressa associata di Antropologia culturale, Antropologia dell’Asia, Anthropology of Complex Societies. Coordina il curriculum di Storia Filosofia Antropologia del dottorato in Studi Umanistici Transculturali dell’Università di Bergamo. Ricerca in modo trasversale tra le scienze naturali e quelle sociali perché di fatto sono le stesse scienze. La ricerca di percorsi tra le epistemologie, le figurazioni, i metodi e le metafore del pensiero e delle pratiche informano tutto suo lavoro e i suoi progetti collaborativi, a cominciare da Raccontars(si). Per questo partecipa dal 2014 all’Anthropocene Curriculm Project (MPI for the History of Science and Haus der Kulturen der Welt KW Berlin). Il suo tema preferito in questo momento è l’acqua, perché le tracce disegnate dell’acqua sul terreno assomigliano alle vene che attraversano il corpo. Ha svolto ricerche etnografiche intorno ai fiumi Cauvery (Banagalore 2009-2015), Chao Phraya (Bangkok (2017-2019), Rio de la Plata (Buenos Aires 2019, in corso) e Danubio (molte città che non si parlano 2021, in corso). Ha pubblicato le monografie Costruzioni dello Spaziotempo (2007), Soggetti egemoni e Saperi subalterni (2012), Antropologia nella Corporation (2016), e curato i volumi Percorsi creativi e Compresenze Immaginarie (con Raffaella Trigona, 2009) e Managing Global Social Water (con Nadia Breda, 2017), oltre varie decine di articoli e molti capitoli di libri gentilmente ospitati da volumi di collegh*.

Elisa Coco 

è tra le fondatrici di Comunicattive, agenzia di comunicazione che si occupa di comunicazione in ottica di genere. Dal 2003 ha frequentato la scuola estiva su Genere e Intercultura “Raccontarsi”, continuando negli anni a collaborare con Il Giardino dei Ciliegi di Firenze e la Società delle Letterate all’interno del gruppo politico affettivo delle Acrobate. Fa parte della staff del campo lesbico di Agape e della rete di educazione al genere Attraverso lo specchio di Bologna. E’ presidente dell’associazione Luki Massa che organizza il festival di cinema lesbico Some Prefer Cake.

Liliana Ellena

 storica e femminista, ha insegnato Storia delle donne e di genere all’Università di Torino ed è stata ricercatrice associata all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole.  I suoi interessi di ricerca si situano all’incrocio tra studi di genere e studi postcoloniali.  Ha pubblicato numerosi saggi sulla storia e la memoria dei movimenti femministi tra cui  I corpi come archivio politico: leggere Paul B. Preciado in Italia’ (Leussein, 2016) e  ‘Turbulence Zone: Diasporic Resonances Across Carla Lonzi’s Archive’ (Bloomsbury, 2020).

Monica Farnetti 

insegna Letteratura italiana all’Università di Sassari. Socia dall’origine della Società Italiana delle Letterate, è assidua frequentatrice della scrittura delle donne, cui ha dedicato numerose monografie (fra le quali Il centro della cattedrale, Tre Lune 2002;  Tutte signore di mio gusto, La Tartaruga 2008; Sorelle, Carocci 2022). Editrice delle opere di Cristina Campo e di Anna Maria Ortese per Adelphi, e di Lettera aperta di Goliarda Sapienza per Einaudi, ha pubblicato studi su autori e autrici antichi e moderni ed edizioni di rimatrici (Gaspara Stampa) ed epistolografe (Maria Savorgnan) del Rinascimento.

  Elvira Federici 

è nata e vive a Viterbo.  Laureata in filosofia a La Sapienza,  ha approfondito gli studi di filosofia del linguaggio, estetica e letteratura in chiave di genere. Ha insegnato ed è stata  dirigente scolastica,occupandosi  ininterrottamente di formazione dei docenti  in scuole, associazioni, università: cultrice della materia/ docente a contratto per Letteratura Italiana e Linguistica all’ Università della Tuscia. Ha scritto manuali di educazione linguistica e letteraria per la scuola (B. Mondadori,1985; Mursia 2004). In Brasile per il MAE, ha lavorato alla formazione degli insegnanti e alla promozione della lingua  italiana. Ha pubblicato interventi su varie su riviste e pubblicazioni e in atti di convegni internazionali. Fa parte del collettivo di redazione di Leggendaria, collabora con Letterate Magazine. Femminista,  promuove  in  istituzioni come scuole e biblioteche pubbliche, oltre che nelle assocazioni, interventi relativi alla poesia, alla letteratura e  al pensiero  e alle pratiche dei femminismi. 

E’ presidente della Società Italiana delle Letterate dal 2020 –  attualmente è al secondo mandato.

 

Federica Frabetti 

è Principal Lecturer in Media and Cultural Studies all’Università di Roehampton. Si occupa di studi culturali, media e tecnologie digitali e studi di genere. E’ autrice di Software Theory (Rowman & Littlefield, 2015) e curatrice di Judith Halberstam, Maschilità Senza Uomini (ETS, 2010).

Gaia Giuliani 

è filosofa politica, esperta in studi culturali, postcoloniali e studi critici della razza e di genere, e ricercatrice permanente presso il Centro di Studi Sociali dell’Università di Coimbra, Portogallo. Si occupa della decostruzione di discorsi e iconografie intersezionali che materializzano il mostruoso nel contesto della modernità coloniale e postcoloniale. 

Nel corso della propria carriera ha lavorato con le Università di Bologna, University of Technology Sydney (Australia) e Cambridge (UK), collaborando altresì con le Università di Padova, Milano Bicocca e Accademia di Brera, Fordham, Leeds, London (Birkbeck and Goldsmiths), e Ca’ Foscari. È In Italia, ha conseguito nel 2018 il titolo di Professore associato (ASN) in Filosofia politica. Dal 2020 è nel Management Committee della COST Action “Decolonising Development” a cui partecipano 27 paesi. È, infine, membro del comitato scientifico delle riviste internazionali Borderscapes, From the European South e Studi Culturali. 

Tra le sue monografie Race, Nation, and Gender in Modern Italy. Intersectional Representations in Visual Culture (Palgrave Macmillan, 2019) [Finalista nel 2019 al Edinburgh Gadda Prize], Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani con Cristina Lombardi-Diop (Le Monnier/Mondadori Education, 2013) [Primo premio nel 2014 per la categoria XX e XXI secolo del concorso bandito dall’American Association for Italian Studies], Beyond Curiosity (Aracne, 2008), Zombie, alieni e mutanti. le paure dall’11 settembre a oggi (Le Monnier/Mondadori Education, 2016) e, per ultimo, Monsters, Catastrophes and the Anthropocene. A Postcolonial Critique (Routledge, 2021). 

Samuele Grassi 

è Lecturer part-time in Italian Studies al Monash University Prato Centre e docente all’Università di Firenze, dove insegna Laboratori di Lingua e inglese e di Cultura digitale per studi linguistico-letterari. Dal 2010, la sua attività di ricerca in inglese e in italiano si concentra si concentra sulle letterature di lingua inglese d’ambito contemporaneo, sulla linguistica inglese e italiana, sessualità e educazione alla cittadinanza, attivismo e performance, e sugli scambi culturali ed educativi (tra cui prospettive comparatistiche su cinema, cultura popolare e campagne mediatiche). Del 2013 Anarchismo queer, ETS.Di recente, con Nina Ferrante ha curato la traduzione italiana di Cruising Utopia. L’altrove e l’allora della futurità queer, di José Esteban Muñoz (NERO, 2022) e, con Cirus Rinaldi, di Outsiders sessuali. Le forme collettive della devianza sessuale, di John H. Gagnon e William Simon (Novalogos, 2019). Sta lavorando a un nuovo progetto all’incrocio di studi queer su genere e sessualità, educazione alla cittadinanza, performance e studi letterari e culturali contemporanei nel mondo anglofono.

Pamela Marelli

 sono un’attivista transfemminista di Non una di meno Brescia.

Mi sono laureata in storia con una tesi sul movimento femminista bresciano degli anni ‘70. Per anni mi sono occupata di migrazione e intercultura, sia per lavoro (per un decennio sono stata operatrice di uffici per persone straniere) che per impegno politico (in un’associazione antirazzista). Oggi lavoro come bibliotecaria.

Ho curato l’editing del libro “Il bagaglio invisibile. Storie di vita e pratiche di mediazione interculturale”, esito del corso per la formazione di donne mediatrici (Progetto Equal). Ho raccontato questa esperienza nella ricerca storica “Il bagaglio in-visibile. Esperienze di migrazione e mediazione culturale di un gruppo di donne straniere radicatesi a Brescia” che ha vinto, ex aequo, nel 2004, il Premio Dolores Abbiati promosso dalla Fondazione Micheletti. La passione per la ricerca storica mi ha portata, nel 2008, a registrare le storie di lavoratrici tessili, raccolte nel libro “Tessendo abiti e strategie. Esperienze e sentimenti di operaie bresciane”.

 Nel novembre 2021 è uscito il mio libro Archivi del mare salato. Stragi di migranti e culture pubbliche, una narrazione storico-culturale che ripercorre i maggiori naufragi di migranti avvenuti dal 1990 al 2020 attraverso le tracce lasciate nelle culture pubbliche. 

Roberta Mazzanti 

è stata ricercatrice di Letteratura anglo-americana presso l’Università degli Studi a Milano, dove è nata nel 1953. Dal 1986 al 2010 ha lavorato come editor di narrativa per Giunti, ideando tra l’altro la collezione Astrea dedicata alla narrativa delle donne di varie epoche e paesi. Oggi collabora come editor e autrice con riviste e case editrici. Fa parte dell’Associazione Forum per il libro e della Società Italiana Letterate. Oltre a vari saggi letterari, ha pubblicato due narrazioni autobiografiche: nel 2015 Sotto la pelle dell’orsa (Iacobelli) e nel 2003 “La gente sottile”, in Baby Boomers: vite parallele dagli anni Cinquanta ai cinquant’anni, scritto con Rosi Braidotti, Serena Sapegno e Annamaria Tagliavini (Giunti). Nel 2016 ha curato con Silvia Neonato e Bia Sarasini la raccolta di saggi L’invenzione delle personagge (Iacobelli), e più di recente il volume Moltitudine, solitudine. Wakefield; Bartelby lo scrivano; L’uomo della folla, Edizioni dell’Asino 2021.

Maria Nadotti

Giornalista, saggista, consulente editoriale e traduttrice, scrive di teatro, cinema, arte, cultura e società. È autrice di Silenzio = Morte: Gli USA nel tempo dell’AIDS (Anabasi, 1994); Cassandra non abita più qui (la Tartaruga, 1996); Sesso & Genere (il Saggiatore, 1996 e Mimesis 2022); Scrivere al buio (la Tartaruga, 1998 e Tamu, 2020); Prove d’ascolto (edizioni dell’asino, 2011); Trasporti e traslochi. Raccontare John Berger (Doppiozero, 2014); Necrologhi. Pamphlet sull’arte di consumare (il Saggiatore, 2015); e coautrice di Nata due volte (il Saggiatore, 1995). Ha ideato e curato vari libri tra cui: Off Screen: Women and Film in Italy (Routledge, 1988); Immagini allo schermo: La spettatrice e il cinema (Rosenberg & Sellier, 1991); Elogio del margine: Razza, sesso e mercato culturale (Feltrinelli, 1998 e Tamu, 2020); Il cinico non è adatto a questo mestiere: Conversazioni sul buon giornalismo (e/o, 2000); Modi di vedere (Bollati Boringhieri, 2004); Dieci in paura (Epoché, 2010); La speranza, nel frattempo. Una conversazione tra Arundhati Roy, John Berger e Maria Nadotti (Casagrande, 2010); Riga 32 – John Berger (Marcos y Marcos, 2012) e, in collaborazione con John Berger e Selçuk Demirel, What Time Is It? (Notting Hill Editions, 2019).

Curatrice e traduttrice italiana delle opere di John Berger, nel 2021 gli ha dedicato il podcast “Per John B.” https://www.oktafilm.it/podcast/ . È autrice di due cortometraggi documentari: Elogio della costanza (2006) e Sotto tregua Gaza (2009).

Antonella Petricone

Nasce (1975) e vive a Roma. Si laurea in Scienze Umanistiche nel 2003 con una tesi sul carteggio d’amore tra Sibilla Aleramo e Lina Poletti. Consegue il Dottorato di ricerca in Storia delle Scritture Femminili nel 2008 con una tesi su “La memoria dei corpi, i volti della violenza. Tra vissuti e narrazioni, dialogo tra Etty Hillesum e le donne sopravvissute alla Shoah”.

È’ socia fondatrice di Be Free, Cooperativa sociale contro tratta, violenze e discriminazioni.

Ha frequentato il Master di I° livello in Formatori esperti in Pari Opportunità, Women’s Studies e Identità di Genere” presso l’Università di Roma Tre.

Ha scritto per Delt@ news, quotidiano delle donne on-line www.deltanews.it, edito dalla Cooperativa editoriale “Genera”, presso cui ha conseguito il tesserino da pubblicista.

Appassionata di politica, letteratura e storia delle donne, segue dal ‘99 diversi laboratori di donne e scuole politiche dedicate alle questioni di genere. Ha fatto parte della staff del campo donne/femminista di Agape dal 2011 al 2017. È’ ideatrice e organizzatrice della scuola estiva femminista della Cooperativa sociale Befree, che è arrivata alla sua dodicesima edizione.

Docente di Lettere presso la scuola secondaria di primo grado.

Fondatrice con altre docenti, del gruppo fb “Indici paritari-più donne nei testi scolastici e un nuovo linguaggio”.

Marco Pustianaz 

è professore associato di Letteratura inglese e teatro presso l’Università del Piemonte Orientale (Vercelli). Ha pubblicato saggi di teoria queer e di performance studies (in particolare sulla spettatorialità teatrale). Dal 2010 lavora intorno alla nozione di “archivio affettivo” e ha curato con Giulia Palladini Lexicon For an Affective Archive. È stato co-direttore sino al 2021 della collana “Áltera” di intercultura di genere e queer insieme con Liana Borghi. Per ETS ha anche curato Queer in Italia (2011). È membro del direttivo di CIRQUE (Centro Interuniversitario di Ricerca Queer) e del comitato redazionale della rivista Whatever. Nel 2021 ha pubblicato per Routledge Surviving Theatre. The Living Archive of Spectatorship.

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Troubling Liana. In memoriam di Liana Borghi

Gaia Giuliani

Siamo state recuperate, riabilitate all’uguaglianza neoliberista, alla famiglia standard, persino all’esercito – mentre assistiamo alle perdite nel sociale, all’impoverimento dell’istruzione, al dileguarsi dei diritti e del lavoro nel nostro presente degradato dove continuano i pestaggi ma si autorizzano i raduni neofascisti, dove sfruttamento e precarietà sono la norma, mentre le donne continuano a essere ammazzate dai loro uomini nonostante si sia architettata una specie di legge per proteggerle, e i Centri di identificazione ed espulsione non li chiude nessuno, anzi continuano a riempirli le carrette del mare, quelle che non affondano. Perciò penso sia opportuno cercare di capire quali nostri atteggiamenti ci normalizzano e ci portano ad accettare questa situazione, a rifugiarci nella piccola felicità individuale, che non è poco, certo, e di per sé è una gran fortuna, ma non basta a rendere buona una vita cattiva.

Borghi, 2014, p.

Chthulucene is a simple word. It is a compound of two Greek roots (khthôn and kainos) that together name a kind of timeplace for learning to stay with the trouble of living and dying in response-ability on a damaged earth. Kainos means now, a time of beginnings, a time for ongoing, for freshness. Nothing in kainos must mean conventional pasts, presents, or futures. […] Chthonic ones are monsters in the best sense; they demonstrate and perform the material meaningfulness of earth processes and critters. They also demonstrate and perform consequences. Chthonic ones are not safe […] No wonder the world’s great monotheisms in both religious and secular guises have tried again and again to exterminate the chthonic ones. The scandals of times called the Anthropocene and the Capitalocene are the latest and most dangerous of these exterminating forces. Living-with and dying-with each other potently in the Chthulucene can be a fierce reply to the dictates of both Anthropos and Capital.

Haraway 2016, p. 2

Scrivo questo contributo per Liana Borghi, con Liana nel cuore, per almeno tre ragioni semplicissime. Prima di tutto, Liana, con Clotilde Barbarulli, mi hanno obbligata, per quasi vent’anni a riflettere sul mio posizionamento e sulle diverse (per intensità e complessità) odissee nella violenza che le persone devono affrontare a partire dai regimi di oppressione di cui sono oggetto e a partire dalla propria inestinguibile e unica esperienza di vita.

Non meno importante, lei, ha praticato a tutto tondo la cura come alleanza politica tra i corpi (Butler 2015), o meglio ancora, come alleanze tentacolari e lussuriose come solo i mostriciattoli chtonici possono creare (Haraway 2016). Lei, insieme alle sue compagne di sempre del Giardino dei Ciliegi, della società delle Letterate, del CLI, di Villa Fiorelle ma anche a tutte le esperienze politiche che ha attraversato e che ha lei stessa contribuito a creare, ci ha così costantemente interpellate su cosa per noi volesse significare ricevere cura, e praticarla. In Tessiture – il volume appena uscito (2022) in ricordo di Liana, Clotilde Barbarulli scrive della loro esperienza insieme, inseparabili da più di vent’anni, riferendosi sia alla Scuola di Villa Fiorelli a Prato, sia al Giardino dei Ciliegi di Firenze: «Era un impastare lo spazio per riappropriarci degli strumenti necessari: un agire pubblico e comune, un potere giusto e partecipato, un linguaggio condiviso e creativo. Senza dirlo esplicitamente, Liana e io chiedevamo ogni volta di contribuire a realizzare una piccola utopia effimera e contingente costruita nell’immediato praticando una socialità costruttiva, creando legami fatti di interrelazione, di reciprocità, di partecipazione e vicinanza.» (p. 42). Legami, continua Clotilde, che non prescindono mai dalla critica e dall’autocritica, poiché anche gli affetti non sono che un dispositivo per la riproduzione di capitale, violenza patriarcale e colonialismo (p. 46). Un’interpellazione forte, quella di Liana e Clotilde, che abbiamo fatto nostra, in tutti questi anni di confronto tra me e tantx altrx compagnx, a partire dalle Betty di Sexyshock (Bologna), da Chiara Martucci e Manuela Galetto di Sconvegno (Milano), dalle tante anime degli hackmeeting, della MayDay di Milano, e dei progetti femministi e queer post-identitari di tutt’Italia.

Allo stesso tempo, da studiosa e militante lesbofemminista, Liana ci ha ricordato l’importanza di fuggire le identità soffocanti così come i soprusi (incluso il controllo consustanziale alla cura), ma anche combattere in nome dell’irriducibilità della specificità umana, quella che noi chiameremo favolosità, chiedendola in prestito alla comunità trans, per una giustizia per tuttx.

Marco Pustianaz ricorda che per lei: «il posizionamento non ha a che fare con l’identità ma come il riconoscimento di una collocazione singolare immersa nel mondo, così come la politica non ha a che fare con la rivendicazione di diritti individuali o soggettivi, ma come “giustizia globale” come afferma nella prima pagina, e non solo di genere.» (p. 151).

Sulla scia della lettura di Marco, e della mia affinità con Liana, proprio su questi due binari intrecciati e inestricabili di etico e politico, voglio collocare la riflessione che segue.

Inoltre, come ricorda Maria Nadotti, nello stesso volume, quello di Liana – e il mio – è: «un femminismo affettivo [capace di] assumere la dissoddisfazione, l’harawayano “staying in trouble”, la nostra comune e inevitabile mortalità come miccia al pensiero e all’azione, come antidoto tanto alla rassegnata meditazione quanto al generoso ma cieco attivismo.» (p. 145). Mi ritengo molto vicina all’invocazione che Liana fa di Haraway, e faccio tesoro del mio essere casinara, casinista e incasinata sulla soglia e dentro il gorgo di costanti sconfinamenti (altra parola cara a Liana, come ricorda Nicoletta Vallorani nel volume, p. 156). Infine, sento Liana nello stomaco, fa scaturire in me un pensiero dolce e appassionato e la consapevolezza che, come per lei, il personale è sicuramente politico, ma ancor più il politico è personale, perché fonte di passione, di sgomento, di audacia, di determinazione e di gioia.

Posizionamenti

Ora, se in quanto femminista, mi sono sempre parecchio posizionata, Liana mi ha obbligato sin dal nostro primo incontro nel 2004 a riflettere su di me in una dimensione attraversata dalle contraddizioni di genere, sessualità, razza, cittadinanza e cultura, quando avevo appena cominciato ad analizzare, con molti collettivi e molte persone, il nesso tra sessualità e precarietà. Ne abbiamo scritto, poi, con Chiara Martucci e Manuela Galetto nel volume che ospita e che si chiude con il saggio di Liana sul quanto queer (2014). Ne abbiamo scritto, insieme, con Chiara Martucci, tentando di far dialogare sia ciò che era già in dialogo, sia le nostre irriducibili favolosità, in un momento in cui la precarietà ci schiacciava, ci deludeva, ci faceva ammalare, ma ci faceva anche e soprattutto esserci l’una per l’altra.

In realtà tutto era iniziato ben prima, prima ancora di conoscere Liana di persona. Liana era stata la curatrice della traduzione del Manifesto cyborg di Donna Haraway, il libro che cambiò radicalmente la mia vita, facendo di me quel che sono oggi: quando nel 1996 lo lessi per la prima volta, quel linguaggio, quel lessico, quella postura politica così come Liana li aveva tradotti, divennero per sempre non solo la grammatica della mia (post)identità, ma soprattutto la sintassi di un’epistemologia che, in grado di accogliere le proprie incoerenze e contraddizioni, è ancora oggi quella che contraddistingue il mio pensiero e azione.

1996 e 2004, due momenti fondamentali a partire dai quali posizionamento e cura, sottrazione, resistenza e rivolta sono stati ripensati centinaia di volte, in compagnia di intellettualx e militantx, , dentro i circuiti femministi ma anche laddove il femminismo non era chiamato in causa, in questo scorrere di persone che restano, luoghi che cambiano, corpi che crescono e corpi che invecchiano. Di fronte a svariate catastrofi naturali, umane e sociali ci siamo chieste – e Liana c’era già arrivata nel 2014 – cosa volesse dire ‘cura di Gaia’, nel senso del riconoscimento dell’interdipendenza tra i corpi e, come diceva Liana sulla scorta di Barad, di tutto quello che mette i corpi in relazione (la materia o non-materia intra-corporea che sostiene la vita e il linguaggio) che sia animato o inanimato, materiale o simbolico. Ora sappiamo che cura, sottrazione e cura del sé, e ‘cura di Gaia’ sono tutte intrecciate, e solo tenendo tutto insieme ha senso chiedersi ‘dove so io, a che punto, e con quali strumenti teorici e affettivi’ in modo diverso e mai definitivo resisto in questo mondo in rovina (Tsing et al. 2017).

Rispetto al mondo che avevamo di fronte ai nostri occhi quando con Chiara e Manuela ci dedicammo al volume L’amore al tempo dello tsunami (2014), quello di oggi è ancora più violento, in cui il capitale ci porta via la dignità e ci restituisce edonismo, scambia cura con controllo farmacologico e scopico, continua a massacrare gli uccidibili, a sfruttare in modo inimmaginabile alcuni a beneficio del mercato, a privilegiare qualcunx per stabilire gerarchie razziali, di classe, genere, sessualità, cittadinanza e religione a guardia delle quali pone uno Stato trasformato in agente sicuritario contro nemici interni, esterni e del capitale; e infine fa tutto ciò a scapito di un pianeta in cui la vita oltre l’uomo, e la vita degna dell’essere umano sono divenute un bene scarso.

Eppure, oggi noi, insieme a molte altre, sembriamo più corazzate, avendo trovato alcuni strumenti per realizzare (o abbandonare) alcuni desideri e perseguire (o abbandonare) traiettorie che erano a noi care. Probabilmente è il nostro privilegio di bianchezza, cittadinanza e classe che ce l’ha permesso.

Ho continuato a fare ricerca sui temi a me cari, trovando in essa forse il culmine di tutto ciò che è venuta maturando in termini di desideri e aspirazioni – almeno fino ad ora. Lisbona ha dato inizio e accolto questa nuova fase come una bella donna povera e morbida, cocciuta e savia, dai seni grandi e dalle braccia contadine, seduta su sette colli, coi piedi a mollo nel fiume e con il viso verso l’oceano. E sempre baciata dalla luce. Molte cose sono successe di spaventosamente spaventose. Incluso il cancro in famiglia (per fortuna superato), la perdita di tutti gli anziani (e per fortuna erano molto anziani) e la sua menopausa precocissima (e per fortuna le mestruazioni endometriotiche non ci sono più). L’adozione come grande luogo di riflessione, ancora in fieri, in un’attesa che dura ormai da quasi 7 anni. L’amore con l’uomo Luigi, che rimette in gioco e induce a ripensare, ancora una volta, identità, processi di costruzione del sé, traumi. Insieme a tutto ciò è sorto un ripensamento radicale del suo posizionamento intellettuale e accademico in quanto studiosa di razza e bianchezza da un punto di vista femminista: tale ripensamento prende vita da una postura razionale ed emotiva insieme, e si può identificare in un rifiuto radicale dell’estrattivismo accademico (Giuliani 2023). Ne consegue un ripensamento del ruolo che una studiosa etica deve avere dentro e fuori l’università, alla luce della relazione tra sapere e denaro, ossia del circolo mortifero tra messa a valore del sapere degli altri, estrazione di valore da questo sapere per mezzo della ricerca, disciplinamento del sapere radicale per mezzo del frullatore accademico, e, infine produzione accademica di conoscenza disciplinata. Ed è forse per questa ragione che il mio lavoro è sempre più artistico, ‘a tecnica mista’, sfuggente (Giuliani 2020; Giuliani et al. 2020; Giuliani et al. 2022): è il risultato di un troubling, che speriamo mi restituisca ciò che sento di aver perso di fronte all’atomizzazione e alla dis-relazione impostami dal neoliberismo accademico.

Cura e fuga

A distanza di dieci anni, oggi ci troviamo dinnanzi all’inasprimento di due fenomeni interrelati: la ri-femminilizzazione dello spazio privato (e la rifemminilizazione della cura), seguita dallo sconfinamento nel pubblico di tale ri-femminilizzazione che ha effetti deleterei dal punto di vista della rappresentazione e della rappresentanza politica, dell’ingresso e permanenza delle donne nel mercato del lavoro, dello sfruttamento delle donne nere e senza cittadinanza nel lavoro di cura, per non parlare dell’impatto della crociata anti-gender su tutti i soggetti femminilizzati, cisgender e transgender, etero e omosessuali. In questo contesto, la questione della cura come ‘consustanziale’ al soggetto femminilizzato è tornata a adombrare la cultura libertaria e ostacolare qualsiasi progetto di liberazione. Essa, nel pensiero conservatore ed egemonico, è stabilita come obbligo morale e sociale per le donne, e come obbligo morale sociale e razziale per le donne razzializzate. La cura fa male alle femministe bianche, poiché sbandierandola come se fosse scevra da relazioni di potere verticali, ne restano vittime, in un susseguirsi di silenziamenti a catena. La cura fa male alle donne razzializzate, perché vi sono state costrette da sistemi razzisti e patriarcali (hooks 1981) e perché le hanno subordinate ad altre donne (bianche). Queste ultime, tutt’altro che solidali, hanno abusato del loro ruolo di cura (il fardello della donna bianca) e usato il lavoro di cura delle donne nere e migranti per guadagnare un pochino di potere razziale residuale (sempre subordinato a quello maschile e bianco) dentro l’ambito domestico e pubblico (Morini 2001). L’obbligo di cura (a cui per molte è vincolato il permesso di soggiorno) le ha poi strette nella morsa del femonazionalismo (Farris 2017).

È per denunciare la ‘mistica (bianca e postschiavista) della cura’ che Audre Lorde, ripresa poi da Sara Ahmed (due studiose che, non a caso, Liana adorava), ha definito la cura del sé come battaglia per l’autonomia di soggetti genderizzati e razzializzati: “caring for myself is not self-indulgence, it is self-preservation, and that is an act of political warfare” (Lorde 1988,  227).

Un qualcosa che probabilmente Liana avrebbe letto mettendo insieme la denuncia di Leslie Feinberg alla mistica dei bambini e l’imperativo di Donna J. Haraway “make kin not babies!”. In poche parole, equivale alla sottrazione dal potere scopico e disciplinante che ti impone, e ti fa pagare per il tuo eccedere, da norme di genere, di razza, di classe e sessuale estremamente violente e pervasive.

La cura del sé è dunque l’esatto contrario di un atto edonistico: è un atto di sottrazione al potere e alle sue imposizioni morali e sociali alla subordinazione (delle donne e dei soggetti femminilizzati per mezzo della cura che devono dare o che devono subire), per non restare sola, ma costruire comunità ‘fragili’, ma solidali e sicure (Ahmed, 25 August 2014). Di questo avevano discusso e scritto anche due cari amici di Liana, rispettivamente Alessandro Zijno che ci ha lasciatx troppo presto, e Alessia (Leo) Acquistapace (2022), al cui lavoro Liana guardava con grande attenzione e affetto.

Per sottrarsi all’assoggettamento tanto quanto alla riproduzione di biopotere, Liana ha fatto scuola: non solo si deve praticare la fuga da tutto ciò che non è etico o che ci sembra non esserlo, ma soprattutto rifiutarsi di ‘imporre’ ciò che si deve pensare e come si deve agire tanto intellettualmente quanto politicamente, nei movimenti e nella vita di tutti i giorni. In linea con Liana, accanto al ‘riconoscimento’ (su cui, con Butler, possiamo dire che si basa l’alleanza dei corpi) vediamo sempre associata la legittimità della ‘sottrazione’, che significa mantenere sempre aperta la porta della fuga sia per i ‘corpi in pericolo’ sia per i corpi ‘resistenti’ – che fuggono dal, o non si conformano all’autoritarismo. La sottrazione (silenzio, menzogna e fuga) permette la creazione di uno spazio altro, temporaneamente sicuro, dicono Liana e Ahmed, personale, solidale, trasformativo e collettivo di riflessione e ri-costruzione politica, insieme (quello spazio che tanto i runaway dalle piantagioni schiaviste e coloro che li aiutavano, quanto le forze anticoloniali e x loro sostenitorx internazionalistx, le lesbiche separatiste, le femministe, le persone queer e trans e x loro alleatx hanno sempre identificato come il luogo sia della ‘comunità fragile’, sia della riorganizzazione della rivolta.

In quanto donna che ama, ha amato o amerà critters di tutti i tipi, la cui bianchezza è perciò a volte egemonica, a volte diminuita, ho esperito un mix di strategie di rivendicazione e richiesta di riconoscimento e di sottrazione e opacità, sicuramente reso possibile anche dal privilegio di cittadinanza, classe e capitale culturale che mi contraddistingue. Il fatto di essermi trovata a dover nascondere, tacere, fuggire e mentire per autopreservarmi è un monito a ricordare sempre come del binomio cura-controllo bisogna sempre diffidare. Tale controllo è esercitato sia da parte di chi riceve sia da parte di chi presta cura dentro la famiglia in cui siamo nate, quella a cui ho dato vita e la comunità che mi sono creata. Tutte noi ci siamo dovute scontrare con madri, padri e altri pezzi di famiglia, fidanzati e fidanzate, che operavano il ricatto cura-controllo (come Chiara e le compagne di Sconvegno hanno analizzato all’inizio degli anni Duemila nel contesto del ruolo della famiglia di fronte alla precarizzazione del lavoro universitario e non delle figlie). Ci siamo poi dovute sottrarre anche da forme di controllo, censura, appropriazione e delegittimazione da parte di altre donne – le madri simboliche, nei movimenti e nelle università – che non capivano, non volevano capire, non accettavano la nostra visione generazionale e una pratica femminista diversa – anche radicalmente – dalla loro. Alcune volte queste forme di appropriazione e delegittimazione nei nostri confronti hanno coinciso anche con le forme di estrattivismo e silenziamento tipiche del femminismo bianco verso le esperienze vissute e le forme di lotta delle donne razzializzate, dando vita ad una catena di violenze doppie e triple, subite ed esperite allo stesso tempo e, a volte, persino dalle stesse persone.

Trasferiamo ora questo ragionamento sul terreno del rapporto con le istituzioni. Mi trovo d’accordo con la rivendicazione secondo la quale la cura è un bene comune che dovrebbe essere redistribuito senza produrre ulteriore vulnerabilità e dipendenza, ma fornendo le basi di una vita degna per tuttx, come molte compagne e amiche hanno rivendicato (penso a Stefania Barca, a Miriam Tola, a Maddalena Fragnito e alle compagne britanniche del Manifesto per cura). D’altra parte, riconosco ancora una volta che lo Stato ha sempre usato la cura per controllare i corpi (specialmente delle persone fuori dalla norma razziale, di genere, sessuale, culturale, fisica etc.). Di fatto, è nella natura dello Stato in quanto frutto della concentrazione di potere e violenza su vite e cose, funzionare come dispositivo di addomesticamento o eliminazione più o meno violenta di ciò che è eccedente o conflittuale. Ancora di più oggi, poi, in uno contesto in cui lo Stato rinuncia ad essere protettore di bene comune per diventare secondino del capitale e di visioni politiche conservatrici e a favore della diseguaglianza.

Di fronte a questo potere che è sia smaccato sia subdolo (neoliberale e autoritario allo stesso tempo) il silenzio, persino la menzogna, e la fuga devono essere rivendicate come forme di autopreservazione: la cura del sé, in modo simile a ciò che Edouard Glissant ha definito opacità (1990), rappresentano la traduzione intersezionale (in quanto fuga dalle intersezioni di etero-sessismo, razzismo e colonialismo) del concetto lesbofemminista di “sottrazione”. Senza paragonare la mia lotta a quella delle persone sottoposte ai regimi patriarcali intersezionali più violenti, allx persone più marginali, allx subalternx coloniali, allx schiavx e a tuttx quellx che soffrivano e soffrono della violenza cieca del potere e che hanno messo in pratica nei secoli la ‘sottrazione’ al potere sui corpi -, riconosco di sapere bene cosa significhi fuggire. Sebbene le forme di silenzio, menzogna, fuga che ho condiviso con le mie compagne di vita e di lotta raramente hanno avuto l’obiettivo di salvarci la pelle, poiché nessuna di noi si è trovata mai nella condizione di esposizione estrema alla violenze e alla morte, soprattutto grazie alla nostra cura reciproca, ci siamo trovate ad esercitare sottrazione e cura del sé in molti momenti. Il controllo dell’istituzione ‘che presta cura’ è quello che nel mio caso, l’ha portata, ad esempio, a dire mezze verità (a esercitare opacità) per adeguarsi allo script che misurava la sua affidabilità come genitore adottivo: per poter passare la selezione, ha dovuto dunque dichiarare a psicologa e assistente sociale la propria sessualità etero-normata, di condurre una vita tranquilla e morigerata, di avere posizioni politiche moderate e di correre pochi rischi. In termini di cura del sé, mi sono presa così cura del mio desiderio di maternità, venendo meno allo script normativo assegnato alle donne, e alle imposizioni moraliste del patriarcato incarnato nello Stato.

D’altra parte, come non riconoscere l’importanza di un dialogo costante con le istituzioni al fine della giustizia sociale – e banalmente di una vita più facile e degna per tuttx? E allora, se ci sottraiamo alla violenza dello Stato, allo stesso tempo non ci sottraiamo alla lotta per la trasformazione sociale e istituzionale, una lotta che tende ad affermare l’illegittimità della guerra, l’orrore del patriarcato, dello sfruttamento coloniale e della violenza capitalistica, insieme all’idea che l’istituzione pubblica deve essere fondata su di una concezione universale della cittadinanza e della protezione sociale, sul diritto all’integrità fisica, al rispetto e alla vita degna qualsiasi cosa significhi, così come alla scelta di abortire, transitare o morire, alla fuga e alla migrazione verso ovunque la vita sia più facile e serena, sul diritto al ‘riconoscimento’ dei propri affetti e, in generale, della propria irriducibile favolosità.

Cura di Gaia

Infine – come Liana ben insegnava in modo lucido, generoso e favoloso, e soprattutto precorrendo tutti i tempi, in Italia – la critica del concetto di cura mediante il concetto di cura del sé diviene ancora più produttiva se associata trans-corporealmente e intra-attivamente all’idea di cura ‘per Gaia’.

Non si tratta dell’invocazione, a noi poco avvezza, a nuove mistiche planetarie. Si tratta piuttosto del contributo a una battaglia politica “per l’esistente” (Haraway 2016; Anna Tsing 2018) e per la decrescita (Haraway 2016; Barca 2020) alla luce dell’interdipendenza tra esseri animati e non, e alla luce di un progetto di giustizia di fronte alla Storia di violenza antropocenica di alcuni uomini su altre umanità negate, sulle loro epistemologie, e sull’ambiente animato e inanimato che le nutre. La cura per il pianeta come ecosistema interdipendente è presa in consegna da Liana e da noi nelle sue diversità inestinguibili, e nella bellezza e favolosità dell’esistente (contro qualsiasi apologia e mistica del materno e della cura) – nel senso di una decrescita demografica ed economica progressiva che permetta all’umanità di godere delle forme di vita, di pensiero, epistemologiche e inorganiche che sostengono intra-attivamente e interdipendentemente la vita di tuttx nel presente.

In tutto ciò c’è un grande paradosso. In linea con molte e molti studiosi, crediamo profondamente che quando Noi ci saremmo autodistruttx, in questa corsa all’accumulazione di ciò che resta di fronte alla catastrofe antropocenica (Vergès 2017), la Terra, Gaia, rinascerà, senza di noi (Sagan 2017, 174; Stengers 2008). La paura degli umani di ‘finire’ materializza un appello al pianeta che proietta su di esso l’urgenza del fare qualcosa per ‘salvarsi’ (Chakrabarty 2008).

Nel frattempo,

Practices of knowing and being are not isolable; they are mutually implicated. We don’t obtain knowledge by standing outside the world; we know because we are of the world. We are part of the world in its differential becoming. The separation of epistemology from ontology is a reverberation of a metaphysics that assumes an inherent difference between human and nonhuman, subject and object, mind and body, matter and discourse. (Barad 2007, 185)

Thinking across bodies may catalyze the recognition that the environment, which is too often imagined as inert, empty space or as a resource for human use, is, in fact, a world of fleshy beings with their own needs, claims, and actions. By emphasizing the movement across bodies, trans-corporeality reveals the interchanges and interconnections between various bodily natures. (Alaimo 2010, 2)

Si tratta di riconoscere un “trans-corporeal system of accountability and mutual implications (Alaimo 2010, 2016) that precede intra-actively the formation of subjects and objects (Barad 2008)” (Giuliani 2021, 164) e che fa degli umani esseri non-autosufficienti (Haraway 1992) come assunto alla base del nostro progetto politico femminista di lotta per la giustizia, la responsabilità e il rispetto. Una lotta che per questo è necessariamente anticapitalista, anticoloniale e anti(etero)patriarcale e che deve essere intrapresa non solo contro le manifestazioni di questi tre sistemi di oppressione a livello macro, ma anche e soprattutto a livello micro: è nelle micropolitiche della riproduzione dell’assoggettamento e dell’estrazione di valore materiale e simbolico che si insidia la riproduzione discorsiva e il sostentamento materiale a tali sistemi.

Contro le micropolitiche della vulnerabilità e dello sfruttamento, l’autoritarismo e le battaglie per l’egemonia suicida, e, infine, le mistiche dell’oppressa, della cura e della femminilità che le sostengono, invoco e mi accodo ad una battaglia contro la sussunzione neoliberista di energie collettive radicali per la riproduzione del capitalismo razzializzato e alla costruzione di alleanze consapevoli contro passati, presenti e futuri Capitaloceni razzisti e Plantazionoceni (Haraway, 2015 e 2016; Vergès 2017; Yusoff 2018). Queste alleanze si basano sulla “skin-to-skin proximity” (Ahmed 2000) e dunque sul riconoscimento dei “pluriversi” esistenti (Khotari et al. 2019) tanto quanto del diritto all’opacità (Glissant 1990), alla menzogna (Fanon 1952) per sfuggire al potere e alle sue ‘ragioni’; sul riconoscimento di qualsiasi forma di resistenza e ricombinazione contro il potere assoggettante (Barbarulli e Borghi 2006; Borghi 2014; Giardino dei Ciliegi 2018); sulla pratica della cura, condivisione, responsabilità, rispetto e cura del sé alla base delle “comunità fragili” (Ahmed 2014).

Queste comunità, in quanto tali, possono dar luogo a spazi sicuri da cui combattere frontalmente e a latere la violenza. Esse sono finalizzate alla crescita di un Noi, che è ‘per tutti’ e ‘tutt’e cose’ (come lo è il femminismo – hooks 2000 – e tutte le pratiche politiche trasformative anticapitaliste, libertarie e anticoloniali), che non è gabbia scopica né è silenziante, ma che dai margini (passando per i molti centri e i molti altri margini) intesse nuove trame e riconosce le interdipendenze, come Liana avrebbe ribadito.

Bibliografia

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Acquistapace, Lessia Leo, 2022. Tenetevi il matrimonio e dateci la dote, Milano, Mimesis.

Barad, Karen. 2007. Meeting the Universe Halfway: Quantum Physics and the Entanglement of Matter and Meaning. Durham: Duke University Press.

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Chakrabarty, Dipesh. 2008. The Crises Of Civilization. Exploring Global and Planetary History. Oxford: Oxford University Presss.

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Giuliani, Gaia 2022. “Navigando nell’Antropocene con i suoi mostri: una critica postcoloniale e femminista della violenza.” Per poter restare fermo a cura di Antonella Camarda e Giangacino Pazzola. Torino: Allemandi, 1, 89-99.

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Kothari, Ashish, Salleh, Ariel, Escobar, Arturo, Demaria, Federico e Acosta, Alberto. a cura di. 2019. Pluriverse. A Post-Development Dictionary. New Delhi: Tulika Press.

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Elvira Federici: Tessiture

In primo voglio ringraziare il Giardino dei Ciliegi e Clotilde Barbarulli.

Onorata e felice di presentare, attraverso le voci di chi vi ha contribuito, il libro scritto in questo anno di assenza di Liana dal mondo visibile ma di sua più intensa presenza, come il libro stesso e la densità di queste due giornate attestano.

Un libro dedicato che si rivela non solo come il ricordo di Liana o la riflessione sul suo pensiero e sul portato della sua ricerca ma anche come una biografia collettiva, dentro una intra-azione e come riverbero di autobiografie che registrano un passaggio conoscitivo e affettivo importante della vita nell’incontro com Liana. “Non per fare altarini”, leggiamo nel documento di presentazione di questo convegno, ma per intravvedere la complessità del farsi insieme del pensiero, imbricato nelle vite, nel respiro, dentro il tempo, diffratto – sottratto alla temporalità lineare che farebbe collocare il senso così vivamente promettente di questa esperienza nel passato.

Ognuno di questi saggi mi ha toccato, commosso, perché oltre al riflettere esperienze e letture fondative intensamente vissute con Liana e grazie a Liana, raccontano anche un evento, la temperie dell’accadimento: spazi, atmosfere, circostanze, contesti in cui rimangono impresse immagini fugaci e luminose di lei. Immagini che restano nella trama del racconto di ciascuna/o, contribuendo ad una tessitura in cui affiora Liana, il suo pensiero, i suoi pensieri e insieme il momento irripetibile, la contingenza di ciascuna/o.

Del resto chi di noi potrebbe immaginare un pensiero disincarnato, un pensiero che preesista alla relazione stessa? E un libro come questo ne dà proprio la vibrazione. C’è nel ricordo, anche più intimo, il senso di fermento di questo pensare insieme in cui si intrecciano e si attraversano discipline, temporalità, confini artificiosi tra vivere e conoscere.

Molto tardi ho incontrato Liana, e non potete immaginare quanto la sua morte mi abbia toccato e mi abbia fatto rimpiangere di non averla conosciuta prima. Naturalmente la conoscevo per le sue scritture, traduzioni, interventi, tuttavia, mi sono domandata, leggendo i vostri racconti, dove fossi io. Negli anni Ottanta frequentavo il Virginia woolf, ricordo a Roma l’assemblea del Sottosopra verde. Da allora sono stati tanti gli attraversamenti e la necessità di posizionarsi rispetto ad identitarismi e binarismi. Contemporaneamente leggevo, con altre all’inizio ( giovani studiose di varie università com le quali c’eravamo incontrate per riflettere sulla “cancellazione” delle donne dal linguaggio e sulla violenza implicita della pragmatica comunicativa), poi anche con altri di diversi mondi e discipline i libri di Gregory Bateson, dove incontravo l’idea di complessità e di mente come struttura che connette, il rigetto dei binarismi epistemologici, l’idea che “la relazione precede” e che la differenza non è ontologica ma si colloca in quel tra che costituisce la relazione. Pensieri che hanno per me sempre dialogato com quelli che i femminismi proponevano in un posizionamento non solo teorico ma pienamente politico (e ogni volta che anche grazie a Liana, ho potuto leggere pensatrici come Haraway o Barad, correvo a sbirciare nella bibliografia se ci fosse Bateson).

L’incontro tardivo, tuttavia oltre a farmi domandare: dov’ ero mentre lei com altr* dava vita a tutto questo, è per me indelebilmente legato alla sua gentilezza, alla sua attenzione, al suo modo di ascoltare e darti valore.

Liana, “instancabile traghettatrice” di pratiche e di pensiero in divenire fertile e inquieto, mai definitivo. Mai definitivo significa capace di restare in contatto e in ascolto senza cristallizzarsi – e accomodarsi – dentro confortevoli letture identitarie della realtà. Significa questo: che tanto il pensiero che l’agire politico stanno nella relazione, di cui Liana aveva cura proprio come condizione per essere. La relazione, precede, dice Karen Barad che abbiamo letto ancora una volta grazie a Liana.

D’altra parte il lavoro polifonico del Giardino dei Ciliegi, l’esperienza di Raccontar/si sono stati presenti, in dialogo e hanno innervato la SIL nei cui convegni, attraverso i workshop, le le proposte, le letture, le riflessioni che Liana e Clotilde hanno portato, sono stati centrali.

Nella SIL, come è accaduto grazie ai femminismi, plurali, intersezionali e transfemministi e queer è sempre stato poroso il confine e attraversabile il luogo della valorizzazione del pensiero e della scrittura delle donne a fronte della loro evidente esclusione del patriarcato, verso l’apparire di soggettività non identitarie, disporiche, in divenire. Porosità nei confronti del mondo umano e non umano, della vulnerabilità dei corpi, della precarietà del lavoro secondo un’ecopolitica che include il vivente tutto e la materia stessa. L’oltrecanone del resto non si ascrivere solo alla letteratura ma ad una postura del pensiero e della politica capace di spostarsi continuamente verso ciò che non ha visibilità né parola.

Nel convegno SIL dedicato alla poesia, nel marzo 2022 Ecopoetiche ecopolitiche, poesia come cura del mondo, dedicato a Liana Borghi e a bell hooks, che ci avevano appena lasciate, ci orientavano antispecismo, meglio, intra-specismo, decolonialità, transfemminismo e queer e un intreccio fertile ha rappresentato la lettura del pensiero di Karen Barad da parte di Chiara Zamboni.

Il lavoro di Liana, che associo a quello di Clotilde, non si può chiudere solo dentro una bibliografia; è piuttosto una disseminazione che ha dato frutti imprevedibili nelle realtà più diverse.

E ora eccoci di fronte a Tessiture, tante voci, ognuna com la sua intonazione, dentro una diffrazione temporale e narrativa: occasione per spingere avanti un pensiero in dialogo con Liana.

Tessiture, il pensiero fertile di Liana Borghi mi collega subito al latte dei sogni della Biennale 2022 come alle tessiture, ai rammendi ai ricami che tante artiste hanno portato colà, al gioco del ripiglino (ma anche alla fertilità del compost) harawaiano.

In questo libro si raccolgono sedici saggi e molte più voci, segno di uno scambio intenso, pullulante, plurale tra tutt*, che pure si riferiscono a contesti, teorici, affettivi, politici differenti: dalla letteratura, alla fisica, al queer, al portato di esperienze come Raccontar/Si. In tutti continua il dialogo con Liana.

E la bio-bibliografia in fieri – e non potrebbe essere che così, trattandosi di un’immensa ragnatela di amore e conoscenza tessuta da Liana com altre/i a cura di Paola Fazzini e Cristina Raffo, con il contributo di Clotilde Barbarulli e Federico Zappino, aspetta tutt* noi per essere completata.

Maria Nadotti, curatrice di questo volume, nel parlare di Liana ci fa riflettere su come si muove il suo pensiero, spostando ogni volta più in avanti la necessità di riflettere sull’ habitat come sull’ habitus, considerando che “l’obbedienza alimenta il caos e la disobbedienza lo interroga”. E questo movimento, in Liana, con l’attenzione alle filosofie neomaterialiste arriva alla disidentificazione allo sganciamento dal bisogno di definirsi. L’aperto, che non c’entra niente con l’inclusione richiede una postura che sappia lasciare spazio ad altro che accade. La disidentificazione è un passo ineludibile.

Elisa Coco, che con le Acrobate ha partecipato alla ventennale esperienza della scuola, racconta la forza generativa e trasformativa di questa esperienza fatta com altre/altri,ù; l’affacciarsi, grazie a Liana all’incontro com tutt* e com le parole di bell hooks, Adrien Rich, Audre Lorde. Una scuola di saperi e di affetti ma anche una pratica dell’altrove cui Liana, avvertiva, era solita portare tutt*

Elena Biagini si sofferma su una Liana forse poeta, a partire dal Cuore di grano Giallo 1983 scritta in risposta all’invisibilizzazione del lesbismo che emergeva a partire da Più donne che uomini del Sottosopra verde. Se Elena puntualizza che trattandosi di un unicum è difficile parlare di stile, la poesia resta un atto politico “ a favore di una postura comunitaria (56). ( e credo che se potessimo attingere all’archivio di Liana, troveremmo tante altre scritture dover ritrovare questa postura)

Ad Elena Bougleux, chiederei di restituirci il fervido dialogo com Liana, a proposito dell’articolo Il queer alla svolta quantica ( Verona 2017) che portò all’uscita di Quanto e queer nel 2017. Attraverso il quanto/queer Liana osserva che non c’è differenza tra umano e non umano, che la materialità del mondo richiede “un aggiornamento delle nostre umane narrazioni onto-epistemologiche, un cambiamento radicale del nostro vivere”; che il lavoro culturale conduca a dis-imparare certi modi di vedere, agire, sentire con l’erosione del confine tra sistemi viventi e non viventi, l’esposione delle gabbie disciplinari e di genere.

In questi tempi inquietanti è necessario dis/fare il futuro. Decolonizzare un futura intrappolato nei sistemi di dominio.

Nell’incontro con la fisica in cui la materia, agentiva, – amorosamente – si lascia conoscere: la relazione descritta in questi termini da Karen Barad, mi commuove e credo che anche a Liana piacesse molto, perché richiede un ribaltamento radicale anche dei modi della conoscenza. Senza appropriazione.

Liana ha il suo modo di stare in relazione con il pensiero, di stanarlo ogni qual volta si cristallizzi in un apparato per metterlo alla prova di altre relazioni e posizionamenti e dei corpi pensanti. Liana sempre rilancia più lontano, con una generosità e a un’apertura alla relazione che non è mai disposta ad acquietarsi. E del resto, torniamo a ricordarlo, c’è un pensiero, come un soggetto, che preesista alla relazione stessa?

Ho provato gratitudine di fronte a questo libro. Verso Liana, verso il co-pensare appassionato, affettivo che lo ha reso possibile. Verso Clotilde che se ne è presa cura.

Diffrattivamente, con amore. Per condividere ancora le eredità plurali di Liana Borghi

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