Abitare. Corpi, spazi, scritture

Convegno SIL  17-19 novembre 2017

SIL Firenze propone un workshop su

“Abitare il tempo: lo spaziotempo come tropo e figura”

 

Ovunque il passato sporge nel presente,

le montagne sfondano da un’era all’altra,

o sbriciolano i millenni, e il tempo si riannoda alla sua fine.

 Anche noi pieghiamo il tempo.

Ricordando impariamo a dimenticare…[1]

               (Anne Michaels, ‘What the Light Teaches’)

Spaziotempo sono uno.

Ogni movimento, ogni azione abita il tempo. [Si può non abitarlo?]

Vorremmo proporre di soffermarci sullo spaziotempo: guardare alla forma del tempo, cercare nelle pieghe del tempo, scegliere tra le tracce tangibili di un abitare; pensare all’inestricabilità di tempo e spazio nel passato e nel futuro e al tempo che si materializza nel presente.

Nella scansione culturale della temporalità nelle nostre letture, quali strategie incontriamo, quali convenzioni vengono usate per rappresentare lo spaziotempo e la nostra capacità di sovrapposizioni e coabitazioni affettive, di trasparenze, echi e richiami, di un sentire precognitivo e/o posticipato, in differita,  collegato alla rivisitazione di luoghi e situazioni?

L’internet e altre tecnologie mediatiche permettono di condividere luoghi e temporalità diverse, di essere in più luoghi allo stesso tempo, di essere a casa e condividere una schermata, una sovrapposizione o sequenza di luoghi e situazioni diversi dallo spaziotempo della nostra visualizzazione. Ma questo avviene anche quando si apre un libro, un quaderno, uno scritto: che non soltanto insieme a noi abita il tempo, ma in quel momento lo condivide e a sua volta lo moltiplica offrendosi a letture incrociate di un passato/presente in divenire. [Jane Eyre bambina, ancora nascosta per noi dietro la tenda rossa]. Come abitare e narrare l’indecidibilità temporale, la coesistenza, compresenza, sincronicità del pensiero situato? Come ri/usare la gamma di correlativi oggettivi e dispositivi metaforici – che include feticci, momenti di essere, topoi, stereotipi e forme – per i nostri viaggi temporali?

 Il romanzo storico, per esempio, con le sue suppellettili narrative, funziona da tempo-contenitore: di un tempo che abita i corpi, di corpi che abitano il tempo anche nell’anacronismo della nostra lettura.  Ma anche in altre archiviazioni di luoghi e  paesaggi il passato riaffiora in planimetrie fantasmatiche che sovrappongono edifici futuribili, eredità post-coloniali, approdi diasporici, campi di migranti: luoghi di ri/visitazioni e abbandoni, di assenze spettrali e mutamenti identitari, di categorie e logiche collocate, di memorie generazionali, con le loro sofferte stratificazioni corporee (cicatrici, tatuaggi, marchi, segni nascosti — sempre i segni del tempo).

La produzione di Marguerite Yourcenar sembra esemplificare certe articolazioni  della parola/concetto tempo: da una parte il lavoro sulla memoria, personale e familiare, dall’altra l’invenzione romanzesca fra distanza e vicinanza, quando,  attingendo ad archivi e materiale vario,  ricrea il proprio universo di “ombre viventi”, un “gioco di specchi tra le persone e i tempi”.  Ci sono istanti grazie ai quali il presente sa collegarsi a momenti ancora vitali e ispiratori del passato: in questi istanti particolari di tempo è dunque possibile realizzare – superando anche grandi distanza temporali — una specie di riattualizzazione vitale del passato (Benjamin). E Jeanette Winterson,  riscrivendo il racconto d’inverno di Shakespeare, sostiene come il tempo, che fissa ogni limite, ci offre l’unica possibilità di liberarci dai limiti. Dopotutto non siamo in trappola. Il tempo può essere redento. Quello che è perduto può essere ritrovato, perché il tempo è reversibile, in una ricerca capace di “scuotere la memoria”, e di “agitare il tempo” (Farnetti).

Pensiamo – con  Elizabeth Grosz — soprattutto alla forza della temporalità che è stata data per scontata nella maggioranza dei discorsi femministi, specie quelli orientati alla storia, ma che raramente viene considerata o analizzata direttamente.

[1] Everywhere the past juts into the present,/ mountains burst from one era to another, or crumple up millennia, time joining at its ends./

 We also pleat time./ or crumple up millennia, time joining at its ends./Remembering we learn to forget ….

Clotilde Barbarulli

Da Lavinia fuggita a Ugresic in esilio

Lavinia di  Anna Banti, coltiva la “passione segreta” di  comporre musica, cosa che non ha spazio sociale e la Storia non contempla. Irriducibile,  Lavinia fugge, ma resta nel tempo della memoria delle amiche. Il passato coincide con il presente della rammemorazione, perché le amiche Orsola e Zanetta vivono “dentro all’aria viva di quella mattina”, quando Lavinia riesce ad eseguire  la sua musica e poi scompare: ”presente e passato sono un istante da catturare e stringere come una lucciola nella mano”.

Anche Ugresic fugge, irriducibile, da un paese che sparisce: per gli amici rimasti e per la madre, “tutto si era rotto, infranto  e diviso…i loro orologi mentali erano saltati”. Ma  lei, cresciuta da “futura contestatrice” nella convinzione che tutte le persone “abbiano diritto a libertà e uguaglianza”, è alla ricerca di una realtà diversa.Bollata come ‘traditrice e strega’ per la sua opposizione al governo nazionalista, porta la sua irriducibilità dalla Jugoslavia fino all’Olanda, e da questa “terra di nessuno”  continua a scrivere contrastando il tempo post-utopistico in cui “i concetti svolazzano intorno a noi come vecchie bandiere smangiucchiate dalle tarme”.

Se in Banti la porosità del tempo/spazio si manifesta sentendo presenti nella narrazione delle protagoniste di un passato mitico (Artemisia, Lavinia), in Ugresic il passato rincorre di continuo il presente nella guerra. In entrambe il tempo storico sembra stemperarsi “in un moto al rallentatore trasfigurante” per cui il passato condiziona liricamente  presente e futuro, creando sovrapposizioni spaziali e temporali.

  Liana Borghi

Solo un baleno: epifanie moderniste e rivelazioni quantiche

(Hall, Woolf, Bellow con Grosz et al.)

Tutto in un attimo di tempo

(Barad, 70)

Forse abbiamo dimenticato del Settecento “il sublime”: risposta intensa al mondo,

indagine delle categorie usate per interpretarlo, e

 “il desiderio di articolare quello

che la consapevolezza non riesce ad articolare” 

(Csicery-ronay, 147)

In uno dei suoi saggi più famosi, intitolato In the Nick of Time che stento a tradurre come “all’ultimo attimo”, Elizabeth Grosz (2004: 5 e 6) discute “della durata o del divenire, delle implicazioni ontologiche per gli esseri umani della loro immersione sempre in avanti nel tempo”. Nell’introduzione scrive che se il corpo è al centro della teoria politica e della materialità organica, è opportuno ripensare i suoi rapporti con il tempo e lo spazio.  “Riusciamo a pensare il tempo solo quando qualcosa scuote la nostra immersione nella continuità, quando qualcosa di estemporaneo disturba e interrompe le nostre aspettative.  Lo possiamo pensare soltanto in momenti sfuggenti, attraverso rotture, tacche (nicks), tagli, occasioni di dislocazione, sebbene non contenga momenti né rotture, non abbia assenza o presenza, e funzioni solo come un continuo divenire.” Ho deciso quindi di scegliere una particolare forma del tempo che si incontra tanto spesso in prosa e poesia, un “momento di essere”.  Non sarà un’indagine seria,  ma una riflessione leggera sul percorso di uno sguardo che in un dato istante penetra, si disperde e raccoglie una nuova percezione di sé e di quello che Karen Barad chiamerebbe la materializzazione dello spaziotempo, o che potremmo pensare come un condensato del divenire del mondo e noi, insieme. Non ho ancora letto, come invece ci eravamo promesse, L’ordine del tempo di Carlo Rovelli, condivido però alcune cose ben note che segnano il mio percorso.

La tradizionale scansione triadica del tempo – passato-presente-futuro — viene considerata (non da tutt*) antitetica alla temporalità non dimensionale, variamente riproposta come rifiuto del tempo, come l’intemporale, l’extra-temporale, l’assoluto, l’eternità, il tempo messianico o la pluralità dei tempi di Spinoza…  Ma la scansione triadica è sempre collegata al nostro recupero del tempo. Tempo che alcuni vedono diretto al divenir-essere (Darwin, Husserl) o al divenire espanso nel futuro  (Nietszche); oppure che vedono come una freccia diretta al futuro (Prigogine).

Ma Walter Benjamin, per esempio,  non crede nel progresso (l’angelo della storia guarda al passato e alle sue spalle si addensa la tempesta) e si concentra sullo Jetz-Zeit, la percezione del qui ed ora, trovando autenticità e verità nella contrazione istantanea del tempo.  Per lui,  temporale e intemporale si incrociano senza fine nel ricordo, ma c’è sempre la speranza/tentazione della redenzione del tempo: che il passato possa essere portato a compimento nel  momento messianico a venire.

            Per il tempo della memoria in letteratura, Proust mostra che oltre la memoria triadica, la memoria involontaria offre, per la durata di un baleno, l’apprensione della vera vita, la connessione con la vita completa, la percezione del tempo allo stato puro, che (anche soltanto) la contemplazione dell’opera d’arte nella sua imperfezione ci consente di gustare.

Altrove, nello stream of consciousness/flusso di coscienza del modernismo, troviamo le epifanie (in origine la manifestazione ai re Magi) di solito attribuite a Joyce: momenti di percezione intensa e di visione, di rivelazione improvvisa, il recupero di ricordi sommersi a cui può accompagnarsi un risveglio spirituale.

Con Virginia Woolf simili momenti di percezione illuminata sono stati chiamati “momenti di essere”,  Moments of Being (1976; 1920-1936). Sono momenti eccezionali che lei definisce in vari modi: come estasi ed ebbrezza spontanea (89),  scosse, intuizioni, percezione del reale che si cela dietro le apparenze (91), “feeling the purest ecstasy I can conceive” (sentire l’estasi più pura che posso concepire),  una diretta comunicazione col mondo, una intuizione “del reale che si cela dietro le apparenze… un disegno dietro l’ovatta” (91). L’ex-stasis è uno stare fuori dal corpo, un immergersi pienamente nell’istante di tempo quando l’uno può diventare il molteplice – e di questo “nick of time”, di questa nostra percezione del  tempospazio che ci coglie in un baleno, si potranno fare usi diversi,  con diverse finalità e applicazioni, e si potranno scoprire indecidibilità temporale, coesistenza, compresenza, sincronicità…

Guarderò come questi momenti prendono forma letteraria in tre micro-narrazioni. A Orlando allo specchio di Woolf (9/10/1927-1928), il momento di percezione serve ad accorgersi che il cambiamento di sesso/genere non incide sulla soggettività.  Per Stephen Gordon lo sguardo allo specchio in Il pozzo della solitudine di Radcliffe Hall (1928), è il momento in cui mette a fuoco l’odio che prova per il suo corpo dal sesso sbagliato.  E in “Un neo” di Saul Bellow  (rappresentato a New York nel 1965, e a Spoleto nel 1966, poi a Roma con Franca Valeri e Gianrico Tedeschi, regia di Vittorio Caprioli; trad. it. C’è speranza nel sesso? Feltrinelli 1967), un famoso fisico quantistico cerca nello sguardo, che darà a un  oggetto di desiderio perduto dall’infanzia, la rivelazione del segreto dell’universo.  In tutti e tre i casi, ma per motivi diversi, il momento di percezione legato allo sguardo rivela aspetti del reale se non addirittura l’assetto del mondo.

Luciana Floris

Il tempo: una breccia nel muro dello spazio

La scrittura non abita il tempo in modo lineare, cronologico, ma insegue le stratificazioni, gli intrecci, le sovrapposizioni di dimensioni temporali diverse, come tanti rivoli che scorrono insieme, esplorando la possibilità della durata di comprimersi o dilatarsi nella coscienza. Partendo da questo presupposto comune a gran parte della letteratura  contemporanea, vorrei costruire un percorso a più voci in cui alcune autrici raccontano la loro esperienza dello spazio-tempo.

Jenny Erpenbeck esplora le stratificazioni del tempo nella tenuta sul lago del Brandeburgo dove si è depositata la storia dei suoi abitanti – microstorie che rimandano alla macrostoria: la guerra, la deportazione, i campi di concentramento. I muri trasudano le vicende delle persone che hanno abitato lì, alla ricerca di un posto dove sentirsi a casa, ma condannati ad essere inevitabilmente di passaggio (così suona la traduzione italiana di Heimsuchung, letteralmente la ricerca di casa). In quegli spazi il passato  rifiuta di passare e si “presentifica”, diventa “presente continuo”. E così si rimette in movimento, diventa gravido di trasformazioni, in  tensione verso il futuro.

La dimensione dello spazio appare nella sua angustia, chiusura, rigidità, come “un muro contro il quale ci si sfracella” (M.Cvetaeva, Il paese dell’anima); la dimora si trasforma in carcere, in “reclusorio” (M.Zambrano, Chiari del bosco) ed è quindi necessario trascenderla, superarla abitando una geografia interiore, un paesaggio dell’anima. La dimensione del tempo invece sembra caratterizzata da una maggiore elasticità, si può modellare, “piegare”; consente un’apertura, una spaccatura, una “breccia”  nel muro dello spazio attraverso la quale si può evadere, in direzione di una maggiore libertà. Ed è così, seguendo le crepe del tempo, scavando in esse, passandovi attraverso, che si può giungere a inventare la propria relazione alla temporalità, a “creare il proprio tempo”, invece di limitarsi a “rifletterlo”. E’ così che si può esplorare il tempo fino ad annullarlo, per raggiungere una condizione dove Chronos è sospeso. Ma è proprio la scrittura che consente questa fuoriuscita, questa proiezione, il superamento dei limiti spazio–temporali. “Il tempo manca sempre, e bisogna scrivere, solo così dal tempo si può uscire – solo così il tempo basta! ” (Cvetaeva).

Laura Graziano

Il tempo del possibile, narrazione e anacronismo in Anna Banti (Artemisia) e Damien Hirst (Treasures from the Wreck of the Unbelivable)

“Dai posteri non pretendiamo ringraziamenti per le nostre vittorie,

ma la rammemorazione delle nostre sconfitte”

Walter Benjamin Sul concetto di storia

Nel pensiero di Benjamin rammemorare le sconfitte da parte di chi viene dopo non significa congelare i fallimenti del passato, ma significa che in un momento successivo la memoria può intervenire e osservare quello che del passato è rimasto latente, le possibilità inespresse.

In tutte le epoche ci sono immagini del passato che acquistano leggibilità e senso solo successivamente e se questa apertura viene lasciata cadere quel passato è privato della sua potenzialità di senso.

La storia tramandata non ha cancellato le tracce di ciò che è stato escluso, ma ne ha sbiancato linguaggio e immagine. Si tratta dunque di riattualizzare il possibile che la storia ha fatto cadere. È una domanda posta nel presente che mette in una nuova prospettiva le opere del passato, che esplora le sopravvivenze tra gli oggetti di epoche distanti. Queste indagini si servono di un modello temporale non lineare, ma di condensazioni e temporalità plurale.

Vorrei osservare tre testi che usano l’anacronismo come struttura temporale della narrazione: il romanzo Artemsia di Anna Banti, il romanzo Vedi, adesso, allora di Jamaica Kincaid e il testo visivo Treasures from the Wreck of the Unbelivable di Damien Hirst.

Il vortice del tempo in Artemisia permette a Banti di raccontare la pittrice, vederne carattere e moti dell’anima e in controluce tracciare parti della sua stessa autobiografia. Attraverso l’anacronismo Banti costruisce un’analogia tra biografia e autobiografia. Banti ha con il tempo un rapporto più radicale di altri scrittori che pure nei primi decenni del ‘900 registrano la perturbazione della cronologia e costruiscono personaggi-particella.

Diverso l’uso dell’anacronismo in Kincaid che descrive un tempo che piega su se stesso e non avanza né arretra: permane, senza nessun movimento.

Per Hirst invece l’anacronismo apre delle domande molto più interessanti del risultato della sua ultima opera: se la memoria ci permette di redimere il passato, dove si colloca in questo processo la costruzione di un passato immaginato? C’è una struttura discorsiva, un elemento testuale in grado di indicare la manipolazione del passato? Come riconosciamo “il finto” nella collisione temporale?

Maria Letizia Grossi

Ponti e tunnel nelle pagine ardenti di Maylis de Kerangal

( Nascita di un ponte, Riparare i viventi, Lampedusa )

“Dovrei dire una quantità di cose su Le ore e la mia scoperta, su come scavo delle belle caverne dietro i miei personaggi: credo che dia esattamente quello che voglio, umanità, umorismo, profondità. L’idea è che le caverne siano collegate,

e ciascuno venga alla luce nel momento presente.” (Virginia Woolf, Diario, 30 agosto 1923 )

Maylis de Kerangal fa proprio questo, non solo dietro i personaggi, ma anche dietro i luoghi, le situazioni; finestre si aprono su tempi e posti diversi, affastellando dettagli, atmosfere, emozioni, che si intrecciano alla narrazione principale. Anche questa minuziosa, ampia, più che fluviale: torrentizia, a cascata. La precisione chirurgica delle parole  – in Riparare i viventi, chirurgica alla lettera per l’esattezza documentata della descrizione della varie fasi di un trapianto cardiaco – non fa perdere in calore e capacità di comunicare emozioni. La lingua e la scrittura francesi trovano anche in questa scrittrice quello spirito fine che consente anche di esprimere sentenze, talvolta, senza perdere in leggerezza. I periodi lunghi, le immagini del tutto originali, l’epica calata nel quotidiano di una comunità, mi hanno fatto pensare, soprattutto a proposito di Nascita di un ponte, al Saramago di Memoriale del convento, con quel lungo, incalzante racconto dell’arrivo dei vari artigiani, ingegneri, maestranze, muratori sul luogo della costruzione del ponte (e del convento). L’apertura verso gli altri che necessitano di riparazioni e cure, o che arrivano stremati all’approdo di Lampedusa, dopo la guerra, la fame, l’orrenda e rischiosa traversata di deserti e di mari, il ponte come simbolo di connessione e di passaggio tra rive e persone: in queste pagine transita e si accampa, in andirivieni tra tempi, situazioni, paesi e continenti, l’umanità dei nostri giorni, travagliata ma non priva di speranze e di partecipazione solidale.

Laura Marzi

Sul separatismo: due voci unite

Occuparsi del separatismo nei femminismi significa analizzare un fenomeno dalla prospettiva dello spazio-tempo.

All’interno del contributo Prospettive e soggetti nella storia delle donne. Alla ricerca di radici comuni nel volume La ricerca delle donne, Paola Di Cori scrive che il separatismo è stato necessario a mostrare e a «confermare l’estraneità delle donne dalla storia». Secondo la storica femminista, però, il separatismo: «non crea storia […] non ha tuttavia dato origine all’articolazione degli elementi tradizionali che compongono il processo storico – vale a dire la durata, la successione, la trasmissione, il conflitto etc.» (p. 101).

La scelta delle donne, quindi, di fare pratica politica escludendo gli uomini sarebbe, in un primo momento necessaria, ma diventerebbe poi rischiosa, in quanto impedirebbe loro di entrare nel processo storico. Quale storia, però? Foucault scriveva: «l’histoire, c’est le discours du pouvoir, le discours des obligations par lesquelles le pouvoir soumet; c’est aussi le discours de l’éclat par lequel le pouvoir fascine, terrorise, immobilize» (p. 60).

Secondo Alessandra Bocchetti, il separatismo è stato ciò che ha permesso la costruzione, per le donne di «un’identità collettiva» che a sua volta «significa sentire di appartenere a una storia» (p. 41).

La contrapposizione dei due punti di vista ben illustra l’ambivalenza che suscita il separatismo. Da una parte, è plausibile che le parole di Di Cori tocchino un punto nevralgico: il dubbio, cioè, che i femminismi separatisti non siano attori del processo storico, bensì esclusi o posti ai margini, come testimonierebbe la violenza imperitura del patriarcato. Dall’altra la consapevolezza che aprire agli uomini comporterebbe quanto meno il rischio, in molti casi, di un abuso di potere da parte loro, e/o di un’invasione in spazi che non sono di loro competenza.

La questione è antica, complessa e, come evidente, controversa.

In questo contributo si cercherà di approfondirla a partire dalle parole di donne che vivono o hanno fatto esperienza, da punti di vista diversi per generazione e orientamento sessuale, del separatismo.

Borghi L., “Tramanti non per caso. Divergenze e affinità tra lesbo-queer e terzo femminismo”, in T. Bertilotti T, Galasso C., Gissi A., Lagorio F., Altri femminismi. Corpi. Culture. Lavoro, Altri Femminismi, Milano 2006.

Bocchetti A., Cosa vuole una donna, La tartaruga, Milano 1995.

Ergas Y., Nelle maglie della politica. Femminismo, istituzioni e politiche sociali nell’Italia degli anni ’70, Franco Angeli, Milano  1986.

Foucault M., Il Il faut défendre la société. Cours au Collège de France 1976,  Seuil, Parigi 1997.

Marcuzzo A.M, Rossi-Doria A., a cura di, La ricerca delle donne, Rosenberg & Sellier, Torino 1987.

Melandri L., Una viscerabilità indicibile. La pratica dell’inconscio nel movimento delle donne anni ’70, Franco Angeli, Milano 2000.

Pellegrini D., Liberiamoci dalla bestia. Ovvero di una cultura del cazzo, Ebook Farm, Milano 2016.

Ribero A. Centro studi e documentazione pensiero femminista (a cura di), Glossario. Lessico della differenza, Regione Piemonte, Torino 2007.

Roberta Mazzanti

THE ROOF IS GONE: esplosioni nello spazio-tempo familiare ed evasioni psichedeliche in alcune narrazioni sugli anni Sessanta e Settanta del Novecento.

“Look up!, The roof is gone and the long hand moves / Right on by the hour”: questi versi sono parte di un testo composto e cantato da Grace Slick – straordinaria musicista e cantante della scena rock californiana a cavallo fra anni Sessanta e Settanta – e sono quelli che meglio ricordo di un esaltante brano musicale che ascoltavo allora, e amo tuttora. Il tetto che vola in aria per un’esplosione di passionalità che la voce e il corpo di Grace Slick esprimono con la massima potenza, lo spazio libero che si spalanca davanti a una donna pronta per l’amore, che non si può tentare di fermare perché se n’è già andata, svincolata perfino dalla forza di gravità, sono una perfetta metafora della libertà che la controcultura della West Coast di fine anni Sessanta voleva offrire nella sua proposta di rivoluzione sociale, erotica e artistica.

Sono gli anni in cui anche a noi, più giovani seguaci italiani di quelle rivolte libertarie, parevano antitetiche due scelte esistenziali: da un lato abitare la casa/famiglia nucleare e dall’altro abitare la strada/comunità, vivendole in forme mobili – quelle che pochi anni dopo si sarebbero dette “nomadi”. Ho cercato di ritrovare questa antitesi, con i drammi e dilemmi che comportava, in alcuni testi letterari e musicali centrati sul tema del “viaggio” che allontana dal nucleo originario – famiglia, luogo di nascita, cultura di provenienza – i giovani fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Viaggi reali e mentali, esperienze psichedeliche, letture alternative a quelle canoniche, esperienze mistiche e politiche che portano far away from home, fatte dagli “occidentali” verso mete alternative.

Ho accolto così a modo mio la proposta del convegno SIL 2017 di ragionare insieme sulla scrittura come “tentativo, unico possibile, di sentirci a casa dappertutto”, intrecciando queste letture e ascolti con riflessioni su certe personali esperienze legate al “sentirmi a casa” o “allontanarmi da casa”, all’abitare in una collettività o sentirmene distante.

Evasione da spazi di agiata confortevolezza che si rivelavano angusti, soffocanti; sperimentazioni del corpo proiettato in luoghi metaforici o reali dove il tempo si snodava con ritmi differenti da quelli “di casa nostra”, o addirittura sembrava essersi fermato…

Ciò significa anche riesaminare la relazione fra individuale e collettivo, compresi i modi in cui si abitava allora e si abita oggi l’immaginario collettivo. E scavare, oltre l’apparente parità e lo scambio spesso sostanziale di ruoli di genere e di potere, ciò che segnava allora (e tuttora?) le differenze di genere rispetto alle possibilità e alle libertà di abitare, viaggiare, sconfinare e tornare a casa nelle “contro-culture” di quegli anni. La rilettura oscilla fra distacco e riconoscimento, fra varie rappresentazioni di presenti e passati, e le sottopone alla consapevolezza che il femminismo ha via via negli anni sviluppato:  sguardo critico presente – certo non per caso, ma per appartenenza di genere – in modo affascinante e complesso in tre opere di scrittura ben diverse: il saggio della scrittrice statunitense Joan Didion  “Slouching Towards Bethlehem”, il romanzo dell’inglese Antonia S. Byatt Una donna che fischia, e lo scritto autobiografico Viaggio all’Eden di Emanuele Giordana, giornalista e inviato speciale per il Manifesto, Internazionale, Radio3 Mondo, mio compagno di liceo, di avventure della crescita oltre i confini milanesi e borghesi; tuttora amico in un duraturo, ampio gruppo affettivo e di sostegno reciproco.

“Slouching Towards Bethlehem”, è uno scritto intenso e a tratti drammatico sulla Summer of Love californiana del 1967 e sulla fuga da casa dei tanti ragazzini americani che fioccavano a San Francisco e sulla West Coast in cerca di pace, amore, musica e sballo. Il punto di vista di Didion, allora 33enne, è curioso, partecipe ma carico del distacco che un’individualista esistenzialista avverte rispetto a scelte comunitarie e ingenuamente rivoluzionarie.

Dalla West Coast all’Inghilterra narrata da Antonia S. Byatt in Una donna che fischia, romanzo scritto nel 2002 ma dedicato a varie esperienze culturali e comunitarie e protestarie della protagonista Frederica Potter e di un composito gruppo co-protagonista collettivo negli anni Sessanta e Settanta. Controcultura pop e psichedelia, anti-psichiatria, contestazione universitaria e sconcerto della cultura liberal inglese, esperimenti di vita comunitaria, scoperte scientifiche e anti-scientismo, tutto saldamente tenuto insieme in un quadro ricchissimo di sfumature, di sentimenti, di influssi visivi e letterari.

Grazie al memoir di Giordana, ho ripensato alle mie/nostre esperienze di allontanamento dal solco familiare e borghese, in varie forme erotiche, politiche, psichedeliche, culturali (letture, musica, cinema, viaggi). Ai tentativi di “abitare” il mondo diversamente da quello che nascita, classe e cultura prevedevano per i giovani di quei due decenni, agli strappi e ai nuovi radicamenti, più o meno falliti o riusciti. Alla scelta che tant* hanno fatto di ripercorrerle in forme narrative, autobiografiche e romanzesche, ri-abitandole nella scrittura e riconsegnandole a ulteriori, nuove dimensioni temporali.

Scritture autobiografiche, saggistiche, di invenzione romanzesca:

  1. S. Byatt, Una donna che fischia, trad. di Fausto Galuzzi e Anna Nadotti, Einaudi, Torino 2005.

Joan Didion, “Slouching Towards Bethlehem. Life Styles in the Golden Land”, in Slouching Towards Bethlehem, 1968, pp. 94-132.

Emanuele Giordana, Viaggio all’Eden, Laterza, Roma-Bari 2017.

Brani musicali sulla casa abbandonata e sul viaggio, sulla strada:

– Me and Bobbie McGee di Kris Kristofferson, cantata da Janis Joplin (1971)

– Like a Rolling Stone, parole, musica e canto di Bob Dylan (1965)

– Woodstock parole, musica e canto di Joni Mitchell (1969)

– The Roof is Gone parole, musica e canto di Grace Slick, dall’album Manhole (1974)

Isabella Pinto

Mercificazione/Riappropriazione dello spazio-tempo

nella pratica di scrittura di sé

Con l’avvento del web 2.0 non solo gli scrittori, ma un’ampia fascia della popolazione mondiale è quotidianamente alle prese con la continua scrittura, riscrittura e lettura di sé (pensiamo all’impatto dei social media sulla nostra quotidianità), recuperando una pratica umana molto antica, lo scrivere di sé. Ad un primo sguardo tale pratica sembra creare uno spazio in cui si accostano e sovrappongono cultura di massa e cultura popolare[1], dove surplus ed eccedenza vengono continuamente sussunti e messi a valore dai nuovi mezzi di produzione, propri del capitalismo cognitivo. Contemporaneamente, nel campo letterario globale notiamo l’emersione quantitativamente consistente dell’uso del discorso autobiografico declinato secondo diverse modalità: dalla testimonianza al reportage, dal récit de vie all’intervista, dal memoir al personal essay, dall’autobiografia romanzata a l’autofiction.

Risalendo al secondo Novecento, antesignano dell’uso esplicito del dispositivo finzionale-autobiografico riconducibile all’autofiction, fu Barthes, con Barthes di Roland Barthes[2], 1974, Francia, ma la prima occorrenza della parola autofiction risale al 1977 sempre in Francia, con il romanzo di Doubrovsky, Fils[3], che scatenò un ampio dibattito teorico[4], a cui presero parte molti teorici della letteratura, tra cui Genette e Lejeune, rivitalizzando il dibattito sulla letteratura del sé che oggi ritroviamo all’interno del dibattito globale sul ritorno della realtà nella letteratura[5]. In una prospettiva politica invece l’autofiction sembra riempire il vuoto ermeneutico generato dalla configurazione di un soggetto costituzionalmente post-ideologico, fluido, flessibile, schizofrenico[6], proprio di un presente incerto, precario, formatosi nella società dello spettacolo, dei consumi e del benessere ma di cui non si trova adeguato spessore di analisi, fuori dagli specialismi disciplinari, dell’esistenza umana così mutata.

La mia proposta per questo workshop è quello di discutere insieme alcuni risultati della ricerca triennale che sto portando avanti, limitatamente alla lettura di testi contemporanei di scrittura del sé di matrice femminile dove lo spaziotempo scavato tra le pieghe/piaghe parla del rapporto tra scrittura e soggettivazione, entanglement material-semiotici[7] imprevisti. Al contempo ci si interrogherà sulla forza di questi testi di spostare, incrinare, le narrazioni del sé proprie del canone contemporaneo, dove sembra aprirsi un inedito terreno conflittuale: la scrittura di sé è al contempo una pratica di riappropriazione/liberazione e oggetto da normalizzare per poterlo immettere nei circuiti “mass-mediali”.

I testi in questione sono: Denti Bianchi[8] di Zadie Smith, Gli Anni[9] di Annie Ernaux e  La Frantumaglia[10] di Elena Ferrante.

[1] H. Jankins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007.

[2] R. Barthes, Barthes di Roland Barthes, Einaudi, Torino 2007.

[3] S. Doubrovsky, Fils, Galilée, Paris 1977

[4] Per una ricostruzione del dibattito vedi P. Gasparini, Autofiction : une aventure du langage, Le Seuil, Paris 2008.

[5] D. Shields, Fame di realtà. Un manifesto, Fazi, Roma 2010.

[6] G. Deleuze, F. Guattari, Mille Plateaux. Capitalism et Schizophrénie, Les Éditions des Minuit, Paris 1980.

[7] D. Haraway, Testimone_Modesta@ FemaleMan©_incontra_OncoTopo™. Femminismo e tecnoscienza (1997), Feltrinelli, Milano 2000; K. Barad, Diffracting Diffraction: Cutting Together-Apart, Parallax, Luglio 2014

[8] Z. Smith, Denti Bianchi (2000), Mondadori, Milano 2009.

[9] A. Ernaux, Gli Anni (2008), Orma editore, Roma 2015.

[10] E. Ferrante, La Frantumaglia, e/o, Roma 2016.