Convegno “Diffrattivamente, con amore. Per condividere ancora le eredità
plurali di Liana Borghi”, 3-4 dicembre 2022

 

Materiali

                                                                                    

Un Convegno al Giardino dei Ciliegi

in collaborazione con la Società italiana delle letterate

Diffrattivamente, con amore. Per condividere

ancora le eredità plurali di Liana Borghi

sabato 3-domenica 4 dicembre

Via dell’Agnolo 5- Firenze

 

 Sabato 3 

Coordina Pamela Marelli

9,30-13,30

Introduzione di Clotilde Barbarulli

Roberta Mazzanti

Passi obliqui nella critica letteraria insieme a Liana Borghi: come siamo uscit* dai sentieri battuti per incontrare zebre, balene e altre amate creature.

Monica Farnetti 

Trasposizioni di Liana

Samuele Grassi 

Utopie (im)possibili.

15,30-19,30

Coordina Giada Bonu

Liliana Ellena

La passione per la memoria e gli archivi divergenti del presente 

Federica Frabetti

Affetti, tecnologie, performatività: gli attraversamenti disciplinari di Liana Borghi.

*17-18,30 collegamento con Sara Ahmed, intervista a cura di Maria Nadotti (traduzione di   Marta D’Epifanio e Beatrice Gusmano). 

Dibattito

 Domenica 4 

9,30-13,30

Coordina Antonella Petricone

Marco Pustianaz

Eredità, trasmissione, memoria: lavorare con Liana senza Liana

Elvira Federici introduce il dibattito sul libro “Tessiture. Il pensiero fertile di Liana Borghi”, con la curatrice Maria Nadotti, Elena Biagini, Elisa Coco, Elena Bougleux, Gaia Giuliani.

    grazie, Fabrice Dubosc 


Presentazione del Convegno “Diffrattivamente, con amore. Per condividere ancora le

eredità plurali di Liana Borghi”

Con il titolo del Convegno s’intende riferirsi – fra i tanti concetti introdotti da Liana, appunto le

sue eredità plurali – alla teoria degli affetti e alla diffrazione, come dispositivo per fare utopia, di

cui oggi abbiamo più che mai bisogno.

Ricordare Liana significa mettere in luce la sua inesauribile curiosità di conoscenza, la sua

apertura a teorie di vari campi, il suo desiderio di farsi attraversare da saperi diversi e la sua

generosità nel farli circolare.

Ma bisogna stare attent* al concetto di eredità. Il suo significato più profondo emerge solamente

quando ci si pone nello spazio dell’innovazione. E’ un patrimonio denso della propria sostanza

creativa. L’eredità non è qualcosa da sfruttare o da usare per creare altarini, ma significa invece

esplorarne lo spazio, riflettere sul viaggio conoscitivo che essa consente.

Così rivisitare la figura della diffrazione, elaborata da Donna Haraway, nei termini di

neomaterialismo femminista, può farci riflettere sul groviglio di scambi intra-relazionali fra

umano e non-umano, sulla diffrazione delle temporalità e l’entanglement di qui e là, ora e allora.

Non si tratta di una proiezione fantascientifica sul nostro presente, quanto – sostiene Liana – di un

modo per capire meglio la complessità delle storie eterogenee che producono i nostri corpi, e

anche di un modo per rifigurare il mondo.

Karen Barad, basandosi su Donna Haraway, propone, in modo creativo e visionario, la pratica

della diffrazione nel leggere/accostare, scene riconfigurate e intrecciate, per produrre qualcosa di

nuovo. La diffrazione, intesa usando la fisica quantistica, non è solo una questione di interferenza,

ma di tracce aggrovigliate di alterità: si può praticare leggendo libri l’uno attraverso l’altro, e

riscrivendoli attraversando “confini disciplinari e modificando contestualmente testi diversi per

aprirne il significato”.

Se, come ha scritto Virginia Woolf, “I libri sono la continuazione l’uno dell’altro, nonostante la

nostra abitudine a giudicarli separatamente”, pensiamo a creare costellazioni di testi che si

illuminano a vicenda producendo dialoghi incrociati anche quando i legami sembrano essere

meno diretti, in modo che il femminismo con queste modalità diffrattive possa creare nuovi modi

di fare mondo.

Occorrono letture e pratiche che offrano resistenza critica a modi egemonici di essere e divenire

attraverso processi affettivi. Ma di fronte all’immensa polifonia del mondo, del vivente, vi è

amore e amare significa anche aver cura, ed è necessario lasciarsi sorprendere – Liana lo ha fatto

e ci spinge a farlo – per ampliare la capacità di agire e di immaginare alternative per il futuro.

Possiamo anche dire che con questo lasciarsi sorprendere Liana ci avverte come occorre essere

guardingh* verso i propri schemi mentali con i quali necessariamente esploriamo il mondo poiché

questi possono facilmente diventare una prigione, norma schema ripetizione slogan.

Ci auguriamo che con questo incontro si creino quelle emozioni che si muovono tra corpi e segni

e fanno delle cose, immaginano tasselli di futuro (Ahmed): “possiamo aiutare a porre domande

alle domande” (Adrienne Rich).

Grazie alla collaborazione di Monica Farnetti, Pamela Marelli, Roberta Mazzanti.


Materiali:

Mappa Concettuale di Roberta Mazzanti

Passi obliqui nella critica letteraria insieme a Liana Borghi: come siamo uscit* dai sentieri battuti per incontrare zebre, balene e altre amate creature. di Roberta Mazzanti

Bibliografia per “Passi obliqui nella critica letteraria insieme a Liana Borghi: come siamo uscit* dai sentieri battuti per incontrare zebre, balene e altre amate creature”. di Roberta Mazzanti

Pamela Marelli:

Qualche giorno fa ho preso degli appunti, temendo che andare a braccio avrebbe potuto scatenere reazioni emotive difficili da gestire.

Come Acrobate, collettivo affettivo politico nato alla scuola raccontarsi di Villa Fiorelli nel 2003-2004, abbiamo scritto un testo collettaneo nel libro dedicato a Liana, uscito ieri, di cui parleremo in questi giorni. Ognun* di noi, oltre al confronto corale che ci ha portat* alla scrittura a più mani, ha ripercorso il proprio rapporto con Liana.

Condivido con voi alcuni ricordi,  scrittI ad aprile, dei momenti salienti vissuti con Liana, rivolgendomi direttamente a lei, anche se annotavo non scrivo mai alle persone morte in prima persona, mi sembra sciocco e inutile, ma oggi mi viene così.

Utopia Livorno 2013

mi doni la tua preziosa cartellina con tanti tuoi saggi sulla fantascienza femminista

casa firenze non ricordo l’anno

guardando la libreria all’ingresso mi parli della fantascienza, di quanto te ne sei occupata e di quanti punti di contatto ci sono con la migrazione, con l’intercultura, l’alieno come il diverso, l’altro e paralleli con il femminile rispetto alla cultura maschile

volevo iniziare dalla scuola di Livorno che ricordavo prima di Duino, invece è  stata dopo, nel 2013, ricordo la gioia di una scuola sul mare, il nutrimento tra utopico e fantascientifico, anche se di utopia ricordo già interventi a Villa Fiorelli, non so se sarà questa la parola che ci hai donato che porto con me, so che nel leggere necrologi su di te, mi ha molto colpita che in più di una ti definissero visionaria, utopista, ti ho sempre trovata così concreta, reale, combattiva, rivoluzionaria nel quotidiano, attiva nel presente.

Mi domando qual’è il primo ricordo che associo a te, forse mentre scendi le scale di Villa fiorelli? Forse ci eravamo sentite prima al telefono? Eri tu che mi chiedevi se ero lesbica che in tal caso c’era una borsa di studio? Una domanda anomala senza dubbio, almeno per me nel 2003. 

Il grande rimpianto è non aver condiviso con te le bozze del mio libro, tu mi chiedevi e io per estremo senso del pudore non ti ho mai mostrato nulla, anche se grazie anche al tuo contributo e non solo a quello di Clotilde, quel progetto ha potuto prendere corpo.

Che tu sia morta senza averlo letto resta in me come un gesto non fatto, una sorta di non detto dovuto al mio stupido assurdo senso del non disturbo, del non eccedere in dismisura verso l’altra, una stronzata enorme, un gesto egoista di non generosità nei tuoi confronti che sei sempre stata generosa e ospitale, condividevo la tua casa,  il sapere, gli affetti, la cura, la politicità quotidiana, che hai tessuto reti per far emergere valorizzandola la personalità di ognuna

ecco adesso sono in lacrime non credevo sarebbe successo invece… invece ancora sembra incredibile tu non ci sia più, Clotilde che mi scrive e mi parla del convegno di dicembre e tu non ci sarai, non ci sarà la tua apertura, i tuoi ricchi complessi arricchenti testi che ci spronano a crescere nella riflessione condivisa, che ci mostrano reti, legami grovigli che possono dare vita all’alternativa nel quotidiano.

Dopo questi appunti di aprile e la fine della stesura del testo con Antonella, Alessia, Elisa, Filippo c’è stato un momento importante, tra i tanti a Liana dedicati.

Alla scuola estiva di Befree, creata e fortemente voluta da Antonella nel 2010, che oggi qui potremmo definire una diffrazione della pratica della scuola femminista nata per noi con Raccontarsi, c’è stato un  momento molto intenso dedicato a Liana, un momento curato da Antonella e dalla staff della scuola, le sue compagne che hanno dato vita alle parole di Liana coi loro corpi e le loro voci, alcune anche senza averla conosciuta, un gesto di amore verso Antonella e di riconoscimento del suo amore per Liana. Travolta dall’onda emotiva, presi parola anch’io per la prima volta senza piangere perché sperimentavo, grazie alla cura amorosa agita dalle altre, che si poteva parlare di Liana senza scoppiare in lacrime e soccombere al dolore. Sentire le sue parole e le sue pratiche lette da Anto, Federica, Gaia, Sara, Silvia,  mi ha reso consapevole del fatto che si può far circolare tutto ciò che Liana ci ha dato, in maniera diffrattiva appunto, facendola arrivare alle donne che non l’hanno conosciuta, alle soggettività che ne sentiranno parlare, che la leggeranno, nutrendosi di tutta la complessità, la bellezza, la spigolosità che lei ci ha donato. Liana arriverà anche a chi non ha avuto come noi l’immensa fortuna di averla conosciuta, di averla avuta come maestra e come pungolatrice, come compagna.

Ve lo racconto oggi qui all’inzio di questa due giorni dedicata a Liana e da lei ispirata perché parlare di Liana possa essere per noi una festa collettiva, come Carla Lonzi definiva il femminismo, sappiamo da tempo che senza ballare e cantare, senza gustare buon cibo, leggere romanzi, confrontarci con le amiche, senza assaporare la vita con gioia nonostante tutto, non può esserci rivoluzione, e visto che Liana ha rivoluzionato la vita di tutt* noi non possiamo dedicarle un convegno così importante senza anche celebrare una festa, la nostra festa per tutto ciò che siamo grazie a Liana. Liana che è diventata con la sua intermittenza la nostra stregatta, e chissà se ci sorride da universi quantistici paralleli.

Questa mattina fanno festa a Liana con noi Roberta, Monica e Samuele.


Clotilde Barbarulli

Letture in diffrazione affettiva: un’introduzione

Con il titolo del Convegno, ci si riferisce – fra i tanti concetti introdotti da Liana, appunto le sue eredità plurali – alla teoria degli affetti e alla diffrazione, come dispositivo per fare utopia, di cui oggi  abbiamo  più che mai bisogno.

In questo orizzonte penso così allo scritto di Liana su Il libro del sale di Monique Truong, in cui il narratore Binh è il cuoco gay vietnamita che lavora da Gertrude Stein,  e  che le ricorda, per la perdita e la migrazione, Il libro dei desideri di Dionne Brand: il vocabolario affettivo della migrazione che attraversa entrambi i testi mi rimanda a Perdi la madre di Saidiya Hartman, perché, pur nelle differenze di struttura,  ugualmente rabbia, memoria, dolore, speranza sono punti di ingresso in episodi e luoghi della storia narrata. 

La memoria della schiavitù che ossessiona Brand non è distante dalla descrizione che fa Truong delle speranze perdute nell’immigrazione. E la schiavitù d’altra parte – posta al centro – riporta ad altri corpi considerati oggi spendibili in uno sfruttamento ancora coloniale. Questi libri sono – come dice Liana – un’ affordance (Gibson) nel senso che esercitano un’attrazione, oggetti che attivano relazioni e potenzialità di azione, con al centro la memoria nel processo legato allo spazio diasporico.

Hartman nel suo andirivieni fra passato e presente, insegue la rotta delle navi negriere dalle coste africane verso le Americhe – con l’obbiettivo, affettivo e politico, di dar voce a chi è stat* dimenticat*:

 «vivo nel tempo della schiavitù -scrive –  intendo  nel futuro creato da essa»: è l’eterno passato-presente di Dionne Brand. Come scrive anche Adrienne Rich «la tratta degli schiavi è stata un’impresa che ha  attraversato tutta la nostra storia dagli inizi». 

Hartman nella città di Gwolu (Ghana), dove si erano rifugiat* schiavi e schiave in fuga, scopre che lì la memoria non è stata dispersa, e che in tal modo la schiavitù può parlare all’oggi ricordando le radici dell’accumulazione capitalistica all’Occidente.  Ascoltando il canto di un gruppo di ragazze in relazione affettiva, la scrittrice capisce che l’eredità di chi fuggendo voleva «istituire una nuova società, anche a costo della vita», era in definitiva «il sogno di un altrove, con tutte le sue promesse e i suoi pericoli, dove i senza-stato potessero, finalmente, vivere».

Come altre scrittrici amate da Liana, rientra in quella prosa fratturata che esplora i margini, indaga gli interstizi del linguaggio, è strumento di rivolta: mi ricorda la narrativa di  Diamila Eltit  che offre una cruda e realistica lettura del sistema di produzione liberista e di un mondo del lavoro violento, con una scrittura incalzante e visionaria,  spazio di resistenza all’ordine dominante, la dittatura del liberismo che ha reso il Cile uno dei paesi latinoamericani in cui le diseguaglianze sono più aspre, ma il discorso si allarga a una realtà non solo nazionale che ci riguarda tutt*. Di fronte a contesti complessi e opachi come le bio-necropolitiche in cui siamo immers*, abbiamo bisogno di racconti, pratiche e figurazioni che nutrano l’immaginazione politica (Haraway). La memoria – nelle autrici citate – è come una matita che sottolinea momenti del passato per farci meglio leggere l’oggi suscitando una responsabilità ancorata nel passato non passato e orientata al futuro:  il passato diventa così ”l’irruzione improvvisa della coscienza risvegliata” (Benjamin). La visione del tempo sovrapposto delle migrazioni richiama anche le osservazioni di Karen Barad sull’etica del groviglio (entanglement) e i nostri obblighi verso il  passato-futuro.

Memoria e responsabilità appaiono così figure del tempo capaci di intrecciare passato, presente e futuro. Truong vietnamita, Hartman afroamericana, Brand afrocaraibica, Eltit cilena mi sembrano interagire  per lo sguardo sul potere che crea sofferenze e oppressioni in forme, luoghi e tempi differenti. In questa lettura intra-attiva di eventi e  testi, il tempo lineare  si sfalda e si ramifica, decostruisce l’ordine stabilito dando voce al conflitto, per decolonizzare un futuro intrappolato nei sistemi di dominio. Per Donna Haraway una lettura per diffrazione fa interagire infatti i testi al di là di ogni legame apparente di parentela, producendo una nuova “coscienza critica” interessata al cambiamento di prospettiva. 

La coscienza critica o la coscienza anticipante (Bloch) si apre così   al problema che il dominio, l’oppressione, la schiavitù, in forme diverse, emergono anche da noi: la gigantesca falsità per legittimare la guerra all’immigrazione in Europa  ignora  il nesso con guerre permanenti e devastazioni dei territori di partenza, come ignora che l’economia europea si nutre di manodopera “extra-europea” selezionata, inferiorizzata e criminalizzata proprio per legittimarne la precarizzazione permanente in quanto schiavizzabile. È il caso ad esempio dello sfruttamento di migrant*, impiegati nell’agricoltura in continuità con il passato coloniale italiano, e che svela, gli aspetti di rendita e di profitto, centrali nella produzione “istituzionale” di una forza lavoro semi-servile, usa-e-getta. È recente il processo al titolare della ditta agricola per riduzione in schiavitù di migranti dopo la morte di  Mohammed Abdullah che raccoglieva pomodori nel Salento. 

Le ideologie reazionarie del resto trovano – sostiene Bloch – un terreno fertile in tutte le età di crisi, quando predominano problemi economici e violenza, così ci ritroviamo ora in Italia con un governo neofascista ed un premier/donna che, con enfasi nazionalista, celebra famiglia/natalità/sicurezza, favorisce il migranticidio, nomina le differenze come devianze, associa scuola e merito. Già Carla Lonzi ricordava che è del fascismo lo slogan: Famiglia e sicurezza!

Per la filosofa e artista afrobrasiliana Denise Ferreira Da Silva l’elemento paradigmatico fondamentale del nostro tempo sono i corpi persi in mare, il passato di schiavi e i genocidi che in un  groviglio (entanglement) temporale collegano i nostri migranti mediterranei con gli schiavi trasportati sull’Atlantico. Butler sostiene che bisogna ripensare l’intero spazio pubblico in cui si muovono le nuove figure di spossessamento, le rifugiate e i migranti, le lavoratrici sfruttate, i disoccupati, le precarie, chi cioè non è annoverabile tra gli indispensabili per il sistema. 

La mobilitazione ha bisogno quindi di un potente immaginario politico in grado di contrastare queste fantasie e realtà fasciste che oggi minacciano la democrazia e la pace (Butler). Ma le proteste degli ultimi anni e le recenti manifestazioni di femministe e transfemministe in vari paesi – come lo sciopero dell’8 marzo,  transnazionale, come il recente 26 novembre – hanno rimesso al centro quell’ “apparire in relazione” che presenta la politica come corporeità ostinata e plurale,  e che Hartman aveva visto nei luoghi creati dalle schiave fuggite:  evocando un futuro fondato su domande escluse dagli archivi istituzionali,  le manifestazioni e le pratiche insorgenti – variabili nella forma a seconda dei momenti – esprimono  uno spazio pubblico che non è controllato e omogeneo come si vorrebbe, ma  smagliato, lacerato, attraversato da continui conflitti e tensioni con gli attuali algoritmi  del potere. Si esprime così “una potenza irriducibile dei corpi che consiste nella loro capacità di essere figure  del desiderio” (Villani), e che nelle piazze tentano di realizzare una alleanza inventata. Isabelle Stengers invita a fabbricare speranza sull’orlo dell’abisso, perché  l’utopia è la critica di ciò che è, la rappresentazione di ciò che dovrebbe essere, una filosofia del desiderio di rovesciare la società ingiusta depositaria dei destini del presente: “Voi/noi possiamo essere energia di responsabilità laddove il capitalismo cerca di minare la possibilità di concepire un mondo migliore”. “Non vogliamo essere incluse – come afferma Angela Davis – in una società razzista e capitalista che non valuta tutti gli esseri umani”. 

Contro la visione “di dominio, sfruttamento e consumo di persone e cose e della Terra, che è… un’unica casa comune” (Toni Maraini), dunque le immagini di manifestazioni transfemministe, ma anche un’altra realtà, fatta di persone, associazioni, gruppi che, con documentazioni, libri e rapporti prendono parola e resistono: «mattoni di parole per continuare a costruire le possibilità di rivoluzionare il mondo» (Alessandra Pigliaru).  

Per cambiare il punto di vista, sottolineava anche Liana, occorrono quindi domande, parole, azioni, emergono i concetti sudati che, spiega Ahmed, sono generati dall’esperienza pratica dello scontrarsi con il mondo cercando di trasformarlo. Bisogna liberare le parole del dominio, masticate e impolverate, aprire la strada a trapassi imprevedibili, ed è appunto questa prospettiva – che sfugge al controllo, perché aperta alla “pura possibilità” – a destare allarme: infatti è sovversiva perché sognare e desiderare, vuol dire decollare verso paesaggi sconosciuti.

Viene in mente la scena del film  Il mago di Oz, in cui Dorothy, il Leone, l’Uomo di latta e lo Spaventapasseri fuggono insieme dalla strega malefica, danzando e cantando, in un sodalizio tra regno umano, vegetale e minerale. Questo abbozzo di originale alleanza narrata nel 1900 sembra un ammicco alla successiva fabulazione speculativa di Donna Haraway e alla sua miriade di configurazioni aperte per poter “sopravvivere in un pianeta infetto”.

Una delle eredità di Liana è proprio la ricerca di sempre nuove mappe conoscitive, di immaginari diversi e nuove fonti teoriche, allargando il campo delle conoscenze acquisite nella costante critica alle strutture interpretative consolidate, quasi una danza fra biforcazioni continue sul confine, per momenti e comunità diverse. L’eredità – intesa come trasmissione femminista – non è passiva e non va perciò irretita, cristallizzata, ma deve spingere a esplorarne lo spazio  favorendo un  viaggio conoscitivo, senza dimenticare mai che proviene da un atto creativo dell’immaginazione, da un desiderio, perciò richiede forme di creatività nell’esplorazione stessa. L’eredità – che offre un patrimonio di conoscenza ed esperienza su cui riflettere – poggia anche sulla relazione per chi ha conosciuto Liana e accettato i suoi stimoli cercando di attenuarne l’assenza. Nel tempo tuttavia potrà creare altre relazioni in chi leggerà i suoi scritti, fra identificazione e divario, fra trasmissione e trasgressione, diventando parte di una memoria collettiva di cui anche “giovani attivist* che non l’hanno conosciuta possano nutrirsi” (Coco).

 Conoscere teorie e pratiche precedenti  è un modo per avere molti più strumenti nell’oggi, ma l’atto di ereditare è un lavoro, in particolare perché per Liana nessuna conoscenza è definitiva, dunque una elaborazione complessa quando si sente il vuoto, affettivo e/o intellettivo,  da recuperare, quando ci si sente limitat* nei paradigmi del momento. Liana ci offre l’esempio di una frantumazione dei confini, trasformati in soglie e transiti: il luogo della sua indagine sta negli incroci, intreccio di testi con altri testi, di culture con altre culture, di pensieri con altri pensieri. Il vortice di parole, concetti, pratiche che metteva a disposizione, nelle relazioni politiche e affettive, era una spinta necessaria a tramare ulteriori percorsi quotidiani di resistenza, per una società dell’accoglienza e della responsabilità. Nicoletta Vallorani ha offerto la suggestiva immagine della ragnatela,” i cui snodi sono le parole chiave” legate ai suoi sconfinamenti fra saperi.

Se a volte alle generazioni successive le eredità del femminismo possono sembrare onerose perché cariche di teorie e azioni già formulate, è diverso per Liana poiché la sua ricerca si poneva e poneva continuamente domande, senza mai cristallizzarsi: un’avventura che spinge solo ad altre avventure del pensiero. Liana ci avverte che occorre essere guardinghi verso i propri schemi mentali con cui necessariamente esploriamo il mondo perché possono diventare una prigione, norma, schema, ripetizione, vuoti slogan. Raccogliere l’eredità di un tale pensiero in movimento perciò è prezioso ma richiede anche un impegno: quelle parole non sono date per scontate, ma hanno bisogno di essere riviste con esperienze e ricerche di donne che vivranno una condizione culturale e politica  in parte cambiata, in parte vicina al passato prossimo. È una trasmissione non come mera conservazione ma come memoria per creare nuove ricerche: i futuri che il suo lascito lascia aperti si dipaneranno nelle parentele tentacolari del fare-mondo queer (Arfini).

Non è tanto perciò un passaggio fra generazioni, ma un movimento di continuità/discontinuità di pensiero: interrogare nuovamente quel pensiero sul presente di chi legge, cogliere le tracce significative per sé e per il mondo vuol dire reinventare, a partire da quella eredità, fra ammirazione/riconoscimento e tensione della distanza. Ahmed – citando La signora Dalloway di Woolf – dice che un libro può offrire un’eredità femminista, diventando “una compagna femminista: è la traccia di una storia che non è finita”. Così gli scritti di Liana offrono il materiale di una storia che non è finita.

Sono tante le studiose straniere, femministe, attiviste, poete che ha fatto conoscere, mettendo in circolazione  le loro idee in varie forme, creando immaginari diversi nell’intreccio con i movimenti femministi e transfemministi mondiali, per abitare confini fluttuanti, sui crocevia tra teorie. Attraversare i confini disciplinari, fare incursioni in concetti, figurazioni e strumenti da un ambito all’altro, viaggiare fra testi e teorie nuove, scaturiva in Liana dal desiderio di  decollare verso paesaggi sconosciuti, attraverso le tantissime mappe che delineava: tante mappe legate ai contesti diversi di ricerche differenti, per ridefinire continuamente il viaggio di conoscenza. La mappa cognitiva è uno schema percettivo che offre informazioni e guida esplorazioni, viaggi: fare mappe corrisponde all’idea di mobilità intellettuale, di pensiero come ricerca, transito, processo: le mappe sono luci di una festa del pensiero critico che  scuote il quadro immobile della prigione dell’eterno presente del tempo e dello spazio della globalizzazione. La grande narrazione del pensiero unico attraverso un linguaggio arrogante, violento mira ad un assenso progressivo, acquiescente al sistema per addomesticare, pietrificare e bloccare qualsiasi trasformazione che ne pregiudichi il funzionamento. Ma- come ci ha trasmesso Liana  la ricerca di  una contaminazione nella lettura di testi di scrittrici e studiose, attingendo al pensiero filosofico, epistemologico, alle pratiche femministe e transfemministe, aiuta  a cogliere sconfinamenti, crepe  e disseminazioni nella complessità liberista, aiuta a capire le forme di dissenso utopico, ogni performance possibile che indaghi disaffezioni, fallimenti, sottrazioni, dis-identificazioni, utili a resistere e contrastare il dominio. Quindi  “libri compagni”, scrive Ahmed –  che ti permettono di procedere per sentieri non battuti, e movimenti “pieni di speranza” ed energia di femministe ostinate, impazienti, ammazzagioa/guastafeste.

Da Raccontar/si ai  vari incontri svolti al Giardino abbiamo capito con Liana come  l’affettività consegna il corpo a un mondo di incontri e di possibilità perché nel femminismo è un punto vitale di partenza per un’etica della trasformazione orientata al futuro (Braidotti). L’affetto è performativo poichè mette il corpo in movimento, lo colloca in una situazione di continuo divenire: come dice anche Paola Di Cori, emozioni e affettività sono condizione fondamentale della soggettività ed elemento fondante degli studi femministi, postcoloniali, queer.

Gli affetti sono perciò in grado di  far entrare i corpi in contatto con altri corpi:  le emozioni circolano, si trasmettono, e muovendosi fra corpi e segni  immaginano tasselli di futuro. Perciò anche se non sappiamo – ricordava Liana- come riuscire ad abbattere muri e raggiungere la giustizia, eppure se notate delle crepe, sono le nostre reti affettive, il nostro attivismo, le nostre letture, i nostri scritti che le causano. 

Riferimenti bibliografici.

AA.VV, Tessiture. Il pensiero fertile di Liana Borghi, Fandango 2022

Ahmed, Sara, Vivere una vita femminista, ETS 021.

Barad, Karen, Performatività della natura. Quanto e queer. ETS 2017

Benjamin, Walter, Sul concetto di storia, Einaudi, 1997.

Bloch, Ernst, Il principio speranza, Garzanti, Milano 1994, vol. I.

Brand, Dionne, Il libro dei desideri, Giunti 2005. 

Butler, Judith, “Corpi nello spazio pubblico. Resistere e creare nella crisi”,  DWF 2, 2014.

Di Cori, Paola, “ Non solo polvere. Soggettività e archivi”, in Archivi delle donne in Piemonte. Guida alle fonti, a cura di Paola Novaria e Caterina Rocco, Torino, 2014.

Davis, Angela, Donne razza e classe, Alegre 2018.

Eltit, Diamila, Manodopera, Alessandro Polidoro ed.,2020.  

Gibson, James,“The Theory of Affordances”, in: The ecological Approach to Visual Perception, Boston, Houghton Mifflin, 1979.

 Haraway, Donna J., Chthlucene. Sopravvivere su un pianeta infetto,  Nero 2019

Hartman, Saidiya, Perdi la madre. Un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi, Tamu 2021

Lonzi, Carla, Sputiamo su Hegel…,  Scritti di Rivolta femminile, 1974.

Maraini, Toni,  Sognare e resistere nella Casa Mondo, Ediz. Lavoro 2019

Pigliaru, Alessandra,  “Relazione. Dialogo tra Laura Fortini e Alessandra Pigliaru”, in SIL/labario, a cura di G. Misserville, R. Svandrlik e L. Marzi, Iacobelli, 2022.

Rich, Adrienne, “Why I Refused the National Medal for the Arts” 1997, rist. In Arts of the Possible, Norton, New York 2001.

Stengers, Isabelle,  Nel tempo delle catastrofi. Resistere alla barbarie a venire, Rosenberg&Sellier 2021.

Truong Monique, Il libro del sale, Giunti 2007. 

Villani, Tiziana, Il tempo della trasformazione, manifestolibri, Roma 2006


 Diffrattivamente, con amore. Per condividere ancora le eredità plurali di Liana Borghi, 3-4 dicembre 2022 

“Utopie (im)possibili” 

Samuele Grassi 

In questo intervento riprendo il desiderio di utopie (im)possibili con cui pensare a sopravvivere nuovamente alla perdita, come un lutto, così come, più in generale, a quello che José E. Muñoz (2022) definisce “il pantano del presente” – una definizione che collega la sfera del sentire, l’affetto, all’agire politico e al bisogno di cambiamento sociale, e rintraccia nella relazionalità il potenziale di distruzione-costruzione di mondi e modi di fare differenza1. Cercherò di seguire-perdendo Liana attraverso una “lettura diffrattiva” – con amore, per riprendere il titolo del convegno – di alcuni suoi testi, scritti a poca distanza l’uno dall’altro ma che raccontano di storie, attraversamenti, percorsi, incontri-scontri, relazioni e condivisioni che credo ci riguardino profondamente. In altre parole, vorrei proporre una modalità di incrocio e sovrapposizione di testi diversi aprendo ad altri testi ancora, scritti da Liana e non, attraverso la lente di un impegno che condividiamo nel raccogliere una o più tracce delle sue eredità plurali: un ricordo dell’incontro con le persone e il progetto del Giardino dei Ciliegi (Borghi 2016), un saggio sul dominio (Borghi 2019), e in particolare, un breve scritto sull’anarchia (Borghi 2014). E qui ringrazio Clotilde e le altre che nella Presentazione del convegno ci ricordano l’importanza di sottrarsi a una concezione normativa dell’idea stessa di eredità, mettendo in atto un lavoro sul linguaggio che ha segnato tante delle esperienze e delle iniziative di collaborazione con Liana: “L’eredità non è qualcosa da sfruttare o da usare per creare altarini, ma significa invece esplorarne lo spazio, riflettere sul viaggio conoscitivo che essa consente”. 

1 Rimando al testo di Muñoz per l’applicazione del concetto di “pantano” (quagmire) nel contesto del desiderio di mondi diversi. 

Spero di riuscire a condividere un modo di raccontare e di raccontar/si, di leggere Liana attraverso Liana e le trame della relazione. I momenti in cui è lei a parlare e quelli dove sono io a farlo si sovrappongono, unendosi, confondendosi (o confondendoci). Non è la messinscena di un dialogo o di uno scambio pianificato e mai avvenuto, né di una mossa celebrativa, né è tantomeno un tentativo di appropriarmi delle sue parole, ma piuttosto uno spiraglio da cui ri-partire insieme a Liana, insieme ad altr*, in uno spazio che lei ha vissuto come “presenza costante”, dove sentirsi parte di un gruppo (Borghi 2016, 247); una possibile mappa per trovare insieme modi di con-vivere qui e ora in “un seme denso di altri tempi e spazi” (Borghi 2018, 36) – un passato-presente-futuro. Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili” 

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Mi è capitato spesso di pensare che, nei rimandi alle figure della “complessità”, alle “tracce aggrovigliate di alterità”, a “nuovi modi di fare mondo”2, il femminismo neomaterialista è un modo efficace di parlare del rapporto esistente tra la volontà di salvaguardare il mondo che esprime il superamento del binarismo “umano”/“non-umano”, le questioni etiche sulla reciproca vulnerabilità del rapporto con altr*, la (non)violenza da un lato, e dall’altro il perpetuarsi della sottomissione strategica della natura da parte di una cultura del progresso dalle tendenze suicide. Un bisogno di fare differenza attraverso la teorizzazione di forme di con-vivenza che presuppongono l’inevitabile inter-relazionalità di pratiche discorsive e materiali, dicono Donna Haraway prima e Karen Barad poi. La ricerca di un vocabolario più ampio che oltrepassi i limiti di un modello di interazione tra entità autonome, pre-costituite anche se aperte all’incontro, spiega il potenziale di un termine come intra-azione. “Intra-azione” risponde della molteplicità di livelli materiali e discorsivi all’opera nelle pratiche sedimentate con cui si è portata avanti in vari ambiti la separazione tra soggetto e oggetto, tra sé e altr*, tra cultura e natura. È quindi necessario considerare gli effetti delle pratiche che interagiscono su questo doppio registro e poter così rendere giustizia alle differenti realizzazioni e materializzazioni delle categorie dell’umano e del non-umano. Nella visione radicale della differenza di Barad, le relazioni di inseparabilità costitutiva con l’alterità sono parte integrante della costituzione di concetti e delle loro incarnazioni: la relazione non è più il risultato, ma l’instabilità e l’imprevedibilità in movimento e continua della relazionalità. 

2 Citazioni tratte dalla Presentazione del convegno, disponibile sul sito del Giardino dei Ciliegi. 

Per Liana, la diffrazione è un metodo di leggere-sentire ma anche essere in relazione, dove “essere e sapere sono reciprocamente implicati” (Borghi 2018, 34). In Bodymetrics. La misura dei corpi, a cura di EcoPol / Ilenia Caleo, scrive che: 

una lettura per diffrazione farebbe interagire i testi al di là di ogni legame apparente di parentela e potrebbe studiarli l’uno attraverso l’altro, producendo una nuova ‘coscienza critica’ non interessata al rapporto di riflessione tra l’originale e la sua copia, ma al cambiamento di prospettiva, e a produrre qualcosa di nuovo. (ibidem, 33) 

Questo potrebbe cambiare la base su cui i testi si incontrano: non più come oggetti che pre-esistono al loro incontro in una comparazione, ma come “relata” le cui qualità ed effetti si specificano attraverso la relazione, specificando allo stesso tempo l’“apparato” (i testi, la lettura e chi legge). Gli approcci femministi e neomaterialisti si basano sui tipi di “misura” e “apparato” che impieghiamo per leggere i fenomeni, ma ci rivelano anche l’uso (discutibile) di certi metodi/strumenti rispetto ad altri. Permettono inoltre di cogliere le differenze che tali scelte Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili” 

3 

comportano e la loro importanza, nonché il fatto che siamo tutt* implicat* come soggetti-oggetti nella (ri)creazione di mondi, nell’apertura e nella chiusura di possibilità. Un approccio diffrattivo alla lettura comparativa riguarda la compresenza di prospettive situate, affetti, incarnazioni e “capacità di risposta” (response-ability; Haraway 2016). La sua importanza radicale per la lettura dei testi culturali risiede nell’intra-azione di questi elementi, dove ognuno è determinato da un punto di vista, una prospettiva, un posizionamento o un apparato di misurazione e osservazione. Questa relazione creativa produce l’intelligibilità della performance singolare della lettura (concepita anche come atto affettivo, come pratica dell’affetto), che è percepita come già altra da sé, come mutevole all’interno e attraverso molteplici luoghi e contesti, a loro volta intra-agenti l’uno con l’altro. 

Ciò che mi sembra importante seguire e condividere del progetto del femminismo neomaterialista, che insiste su una concezione dell’essere che supera i propri confini, è il modo in cui ci aiuta a sottrarci alle strutture di potere gerarchiche ed egemoniche, su tutti il principio che regge ogni dualismo. Mi collego, quindi, al testo “Prospettive libertarie e strategie queer in una scuola estiva”, che Liana ha pubblicato su richiesta di Paolo Finzi in A-rivista anarchica. Qui Liana racconta la storia del laboratorio Raccontar/si, a partire dalla sua origine nel 2000 insieme a Clotilde e la Società italiana delle letterate, ma anche in dialogo con la rete europea di studi sul genere Athena, tramite l’Università di Firenze. E mette in circolo poi una serie di idee, alcune delle quali cerco di raccogliere e portare qui: 

# La volontà di “trasmettere e condividere […] intercultura di genere”3 

3 Quando non esplicitato diversamente, tutte le citazioni indicate nei punti indicati con # sono di Liana Borghi (2014). 

Abbiamo bisogno di pratiche pedagogiche dis-ubbidienti, che suscitino il desiderio di interrogarci sulla nostra posizione all’interno dei processi di separazione dall’alterità e di cambiamenti che sono già in corso ancora prima che sia possibile teorizzarli, e di conseguenza sapervi resistere. Di pensare maggiormente ai modi in cui nutrire il nostro bisogno legittimo di dire “no” (Gandhi 2019), di rifiutare il consenso in nome dell’apprensione di una vulnerabilità estesa che pur non implicandoci tutte allo stesso modo (Butler 2021), riesca a fornirci gli strumenti per vivere in un mondo in cui gli effetti del suo collasso accendono in noi il desiderio di forme affettive dell’incontro e della complessità, della vulnerabilità che ci lega indissolubilmente a ciò che è altro-da-noi (Tsing 2017). Siamo già dentro alla fine del pianeta che abitiamo, ci ricorda Timothy Morton (2013), e da questo punto occorre partire altrimenti per fare differenza senza una visione che ci allontani dal presente in nome di un futuro che non appartiene mai a tutt* indistintamente. Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili” 

4 

# L’impegno a “insegnare imparando, imparare insegnando: dalla teoria alla pratica e viceversa” come “impegno collettivo 

Nel volume Il Giardino dei Ciliegi, di Laura Marzi, che raccoglie una ricerca coordinata da Clotilde Barbarulli sulla storia dell’associazione, Liana racconta così la propria esperienza: 

A me interessava stabilire una forte sinergia fra la Libreria, il Giardino, l’università e la comunità inter/nazionale LGTQ che frequentavo. Il Giardino diventò una risorsa importante con la quale sentivo di condividere il mio percorso di studio e ricerca non solo letterario – sui soggetti liminali ed eccentrici, sul queer, il genere come performatività, i corpi post-umani, le culture dell’internet – sempre alla ricerca di aggiornamenti transnazionali, convinta che il groviglio di teoria, pratica e politica ci riguarda e coinvolge. (2016, 246) 

Per me è interessante notare quanto questo si leghi anche all’idea di brown commons di Muñoz, che verso la fine della sua vita scopre e si interessa al neomaterialismo femminista mentre prova a ri-scivere i latinx studies. E ci dice che la brown commons “is about the swerve [sterzata] of matter, organic and otherwise, about the moment of contact, and the encounter and all that it can generate” (2020, 2), ricordandoci più volte che si tratta di una formazione “parziale”, “non-conoscibile” e “non-anticipabile”. 

# Dis-imparare imparando altrimenti: “stare, pensare, fare in relazione” 

Con Liana abbiamo riflettuto spesso sul mio posizionamento come “impostore” negli spazi femministi online e offline – le discussioni, le e-mail, le pubblicazioni, le conversazioni su Skype, le conferenze, gli eventi accademico-attivisti. In che modo il mio essere cis (ri)-forma questi spazi femministi e come viene (ri)-formato da e in questi spazi? In questi incontri affettivi, pedagogici e politici, posso rivendicare legittimamente uno spazio come (non) mio, e lo spazio che sto occupando rappresenta un impegno di affinità o l’ennesima, potenziale minaccia? 

Il mio essere in uno spazio femminista annulla la mia singolarità, trasformando quello che sono nel risultato finale di processi e incontri non conclusi (Haraway 1988), per riuscire a imparare a “vedere insieme senza pretendere di essere un’altra”, ancora (ibidem, 586). E con Liana abbiamo parlato spesso dell’importanza della “visione” per qualsiasi attraversamento di confine. Mentre mi trovo a negoziare il (dis)agio della “sindrome dell’impostore” negli spazi femministi, spero però di continuare a sperimentare questi e molte altre forme di “spossessamento queer”, come le chiama Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili” 

5 

Julietta Singh, che mi aiutano a pensare che sia possibile vivere un modo completamente diverso di abitare il sé (2018, 8). 

# L’impegno nel praticare “una socialità amorevole, costruttiva, trasformativa” in spazi non-istituzionali 

In questa idea della socialità rintraccio una critica importante verso il concetto di umano in tutte le sue sfaccettature, come anche nel paper sul dominio, dove Liana riprendendo ancora il femminismo neomaterialista ci parla di come “una pratica materiale collegata al complesso industriale-materiale – la fisica quantistica – potrebbe offrire speranze di cambiamento dentro i sistemi egemonici di dominio, inquietando la totalità e la chiusura attraverso l’indeterminazione” (2019, 9). 

# Saper sentire e vedere (l’importanza della) “complessità” 

Voglio leggere questo invito soffermandomi sul duro lavoro che comporta la relazionalità a tutti i livelli, dalla teoria all’indagine sul sociale e il cambiamento. È ciò di cui parla Jack Halberstam in L’arte queer del fallimento, di recente tradotta da Goffredo e con CRAAAZI, quando parla di “un ottimismo che assomiglia a un sottile raggio di sole, che produce ombra e luce in egual misura, e che è consapevole del fatto che il significato dell’una dipende sempre dal significato dell’altra” (2022, 14); e ancora “dobbiamo de-formarci, disimparare quello che sappiamo in modo da riuscire a riaprire lotte e dibattiti lì dove le questioni sembrano risolte e pacificate” (ibidem, 23). 

E ritorno alla domanda che continua a sembrarmi la più importante in questo caso, con chi intendiamo fare questo viaggio? Con chi vogliamo produrre nuove mappe? Quale parte di noi dobbiamo saper mettere in gioco? 

# Dis-imparare per imparare altrimenti come esempio di “buone pratiche femministe” 

Qui penso al mio bisogno di cominciare dis-imparando nel quotidiano, partendo dall’infinitesimamente piccolo (un’espressione di Liana che mi piaceva molto), quel “mandato di mascolinità” di cui parla Liana nell’intervento sul dominio, riprendendo il concetto elaborato dall’antropologa e femminista argentina Rita Segato e dall’ attivista uruguaiano Raúl Zibechi (2019, 3). Questo, per me, è uno dei sensi più importanti con cui comprendere le eredità plurali di Liana. Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili” 

6 

# Muoverci insieme vero la “queerness del quanto che ci mostra la dis/continuità e il dis/farsi dell’identità nella sua im/possibile trans/formazione” 

A me interessa un lavoro costante sulla lingua, sul linguaggio, e da questo punto di vista i segni grafici come la barra rappresentano spazi di possibilità. E interessano due domande in particolare: Come possiamo portare avanti questo lavoro, come possiamo praticarlo negli spazi della quotidianità? In che rapporto esiste con la sottrazione e la critica al dominio? Come fare per non renderlo uno spazio che, come altri, rischia di essere cooptato? 

# L’idea dell’anarchia come “movimento discontinuo” (da Judith Butler), come un “suggerimento di latenza” che per Liana era produttivo e portatore di speranza collettiva, ricordando quelli delle varie edizioni della scuola estiva come “incontri dove si fa contro-in-formazione, dove anche il corpo diventa strumento di resistenza, e dove si parla di quello che c’è, e di quello che non c’è” 

Rintracciare le espressioni del queer come “movimento discontinuo” che esiste insieme all’idea di anarchia è un modo per me significativo di affondare negli archivi (del) queer. In proposito, mi viene da pensare al concetto di wildness dall’ultimo lavoro di Halberstam, dove il termine di codifica come “né utopia né distopia”, ma piuttosto denota una forza (force) di re-agire, ma anche un modo di essere (way of being) che emerge da esperienze vissute e incorporate e collega storie di esilio, oppressione, migrazione, divenire-altrimenti, umano e non-umano, animale, naturale e innaturale. Wild, continua Halberstam, è uno spazio anti-egemonico da cui contestare l’ordine di ciò che è stato e ciò che è, “offre prossimità alle critiche di questi regimi di significato, aprendo alla possibilità di disfare [unmaking] e demolire [unbuilding] mondi” (2020, 4), per cui possiamo interagire con questo concetto anche se porta con sé delle storie dolorose, di violenza e occupazione, di dominio e di coercizione. Per me, questo è un esempio di zona di contatto piena di possibilità e di potenziale, che lega l’anarchia come rifiuto di ogni forma di dominio, al queer e all’utopia come desiderio di distruggere-creare, come forme di progettualità e di desiderio sostanzialmente collettive. 

# La critica queer alle istituzioni 

Nell’articolo per A-rivista anarchica, Liana sottolinea nuovamente la storia del queer verso la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, dall’attivismo delle chicane e afroamericane alle proteste di ACT-UP; e ci ricorda quanto “la critica queer alle istituzioni […] ha lo scopo di cambiare la visione che abbiamo del mondo e di portare a ripensare collettivamente la vita – cominciando Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili” 

7 

da noi stessi – senza ricadere in un progressivismo positivo”. Nell’attuale ordine globale, quali forme dovrebbe assumere la speranza? Vorrei chiudere ancora con Muñoz: 

Questa speranza è quello che chiamo speranza critica o desiderio sapiente; un rifiuto attivo e la richiesta importante di qualcosa di diverso. L’utopismo critico non nasce dall’autocompiacimento, da un ozioso desiderio che le cose migliorino. Nasce dal senso di indignazione che si prova per il danno che colpisce gruppi, individui, culture, stili di vita e il pianeta stesso. Il compito a portata di mano non è mettere in atto un bene comune, ma toccare un bene comune realmente esistente. (2020, 6)4 

4 “This hope is what I have called a critical hope or an educated desire; it is an active refusal and a salient demand for something else. Critical utopianism is not borne of complacency, of an idle wishing for things to get better. It is borne of the sense of indignation one feels at the harm that is visited upon groups, individuals, cultures, ways of life, and the planet itself. The task at hand is not to enact a commons, but to touch an actually existing commons”. 

“Caro, felice di sentirti. ci sono almeno altri 3 testi collegati che possono arricchirti la vita”. 

Continuiamo a leggere – 

Con amore, Sam 

Un appunto, da Muñoz (2021) Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili” 

8 

Bibliografia 

Borghi Liana (2014), “Prospettive libertarie e strategie queer in una scuola estiva”, A-rivista anarchica, 43, 385. 

— (2016), Liana Borghi, in Marzi Laura, Il Giardino dei Ciliegi: Storia e intrecci con altre associazioni a Firenze e in Toscana (1988-2015), ricerca coordinata da Clotilde Barbarulli, Firenze, Consiglio Regionale della Toscana, 245-247, <http://www.consiglio.regione.toscana.it/upload/eda/pubblicazioni/pub4051.pdf> (12/2022). 

— (2018), “Percorso per diffrazione”, in Bodymetrics. La misura dei corpi, a cura di EcoPol / Ilenia Caleo, IAPh Italia, pp. 31-37. 

(2019), “Performatività del dominio: una introduzione”, <http://www.ilgiardinodeiciliegi.firenze.it/wp-content/uploads/2020/01/Borghi-liana.pdf> (12/2022). 

Ghandi Leela (2015), “Cerimonia di consegna del Premio per la migliore tesi di laurea magistrale e di dottorato sul tema del contrasto alla violenza contro le donne”, Roma, 24 novembre, <https://www.radioradicale.it/scheda/459657/cerimonia-di-consegna-del-premio-per-la-migliore-tesi-di-laurea-magistrale-e-di> (12/2022). 

Halberstam Jack (2021), Wild Things: The Disorder of Desire, Durham, Duke UP. 

— (2022), L’arte queer del fallimento, trad. it. Goffredo Polizzi, Roma, minimum fax. 

Haraway Donna (1988), “Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective”, Feminist Studies, 14, 3, pp. 575-599. 

— (2016), Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, Durham, Duke UP. 

Muñoz José Esteban (2021) The Sense of Brown, Durham, Duke UP. 

— (2022), Cruising Utopia: l’orizzonte della futurià queer, trad. it. Nina Ferrante, Samuele Grassi, Roma, Nero Editions. 

Morton Timothy (2013), Hyperobjects: Philosophy and Ecology after the End of the World, Minneapolis, University of Minnesota Press. 

Singh Julietta (2018), Unthinking Mastery: Dehumanism and Decolonial Entanglements, Durham, Duke UP. 

Tsing Anna L. (2017), “A Threat to Holocene Resurgence Is a Threat to Livability”, in Brightman Marc, and Lewis Jerome (eds), The Anthropology of Sustainability beyond Development and Progress. Palgrave Studies in Anthropology of Sustainability. New York, Palgrave Macmillan, https://doi.org/10.1057/978-1-137-56636-2_3 


Affetti, tecnologie, performativit®§̀: gli attraversamenti disciplinari di Liana

Borghi

Federica Frabetti (University of Roehampton)

Presentato a “Diffrattivamente, con amore: Per condividere ancora le eredit®§

plurali di Liana Borghi”, Giardino dei Ciliegi, Firenze, 3-4 Dicembre 2022)

Il mio intervento si intitola “Affetti, tecnologie, performativit®§̀: gli attraversamenti

disciplinari di Liana Borghi”. Questo perch®¶ la mia intenzione era di fare un intervento

per benino; e se leggete il titolo del mio contributo a Tessiture (“Incanto Queer”), quello

®® un titolo po’ pi®¥ fantasioso, per®∞ si tratta sempre di un intervento per benino.1 E’ un

intervento che ha uno stile accademico forse un po’ fuori moda – ®® quasi

un’involontaria parodia. Gli interventi per benino servono tipicamente a chi viene

valutato da una istituzione accademica e si deve muovere in un quadro concettuale

appropriato. In questi giorni per®∞ sono stata molto arrabbiata per quello che ®®

successo nel Regno Unito, dove vivo, dopo che ho consegnato a Clotilde il mio titolo

per benino e ho deciso di riflettere questa rabbia nel mio intervento, perch®¶ penso che

un ricordo amoroso di Liana non possa scindersi, proprio diffrattivamente, da una

chiamata all’azione.

User®∞ comunque le tre parole del titolo (tecnologie, performativit®§ e affetti – e

naturalmente gli attraversamenti di contesti e saperi di cui Liana era maestra) perch®¶

hanno significato moltissimo nella mappa concettuale del mio rapporto con Liana (per

usare un concetto che viene dalla praxis della Scuola Estiva di Villa Fiorelli). Ci

dovrebbe essere una quarta parola chiave, ma forse la possiamo includere sotto

“performativit®§” e riconoscerne la parentela con “diffrazione”: la quarta parola ®®

“frammentazione”, e il mio intervento sar®§ un po’ frammentario, perch®¶ la realt®§ ha

fatto irruzione nella mia scrittura e nelle mie pratiche con tale violenza in questi ultimi

tempi che non mi ®® stato possibile scrivere in altro modo. E poi la sistematicit®§, lo

sappiamo, non ®® nemmeno pi®¥ un modo possibile del pensiero-azione, come il lavoro

di tessitura molteplice e di intramazione di Liana ci dimostra bene; non ®® un modo

1 Tessiture. Il pensiero fertile di Liana Borghi, Roma: Fandango, 2022.

2

praticabile di affrontare il presente e la frenesia e la violenza del sistema di saperepotere

neoliberista. Se si viene da settimane di alternanza tra scioperi, picchetti,

malattia, e superlavoro, si finisce per essere un po’ frammentate.

Riprender®∞ anche alcune linee che ci sono nell’intervento per Tessiture, ma le porter®∞

altrove. Per riprendere, appunto, Tessiture, Liana ha cominciato un intervento al Prado

di Madrid nel 2014 proprio cos®¨, con una frase che per me sintetizza il suo lavoro

teorico/politico. La frase di Liana ®® “Sto per portarvi altrove”2. L’intervento del Prado si

colloca nel contesto del primo forum di Metabody, una rete collaborativa triennale

gestita da Jaime del Val e finanziata da fondi di ricerca europei che coinvolge collettivi

artistici, laboratori di ricerca e attivisti.3 Metabody intende ripensare percezione,

movimento, cognizioni e affetti al di fuori della concezione cartesiana fondata sulla

dualit®§ corpo-mente. L’obiettivo ®® indagare come cognizioni e affetti siano processi

relazionali e corporei multiformi e quindi irriducibili a significati normativi. L’obiettivo ®®

anche fondare una diversit®§ culturale sostenibile su forme di gestualit®§ e movimento

che eccedono categorizzazioni predefinite. Il titolo dell’intervento di Liana ®®

“Spettralizzare il queer” (“Ghosting the queer”) e Liana apre questo intervento

rivolgendosi all’uditorio vario e informale che affolla la saletta del Medialab con la

frase, appunto, “Sto per portarvi altrove”.

In questo intervento, Liana fa un’operazione molto complessa e insieme molto

semplice: reintroduce il queer in un contesto che l’ha dimenticato. La sera precedente,

tornando in albergo, Liana mi ha chiesto “ma in questo progetto dov’®® il queer?”. E’

una domanda che Liana ripeter®§ spesso, per anni, in contesti diversi, sia accademici

che attivistici; soprattutto in quei contesti che ho scoperto grazie a lei, dove si produce

sapere teorico vero (gi®§ quando questo sapere nelle universit®§ non c’era ancora, o

c’era poco, per lo meno in Italia), cio®® sapere a stretto contatto con le pratiche di

movimento. E’ grazie a Liana, ®® grazie a questa realt®§, che io scopro intorno al 2003

che in Italia c’®® ancora chi pensa, e pensa davvero – io che venivo sia da un mondo

universitario che sentivo non pienamente corrispondente ai miei desideri sia dal

2 L. Borghi, Ghosting the Queer. Presentato a “Multiplicities in Motion: Affects, Embodiments and the Reversal

of Cybernetics” First Metabody Forum, Madrid, 24-31 luglio 2013.

https://www.youtube.com/watch?v=gtrsQ0Y7DTI.

3 Metabody (s.d.), Introduction. https://metabody.eu.

3

grassroot activism del Social Forum, dalla politica semi-istituzionale dei comitati di

base della FIOM e da gruppi partitici (Rifondazione Comunista) e interpartitici (come

quello di Milano del 1999 sulla guerra in Kosovo), dove si produceva azione ma, dal

mio punto di vista, non abbastanza pensiero. “Il queer” non era solo un modo

abbreviato per riferirsi agli studi queer di matrice angloamericana che conosciamo e

a pratiche politiche che aprivano a posizionalit®§ e soggettivit®§ non lesbo-gay

mainstream. Chiedere “dov’®® il queer?” era uno dei modi scelti da Liana per

interrogare le nostre pratiche e saperi, per ricordarci che siamo corpi, per invitarci a

riposizionarci e a risituarci (per usare un termine di Haraway). Era un invito a rendere

esplicito il taglio epistemontologico, l’intra-azione (per usare termini mutuati da Karen

Barad, come spiegher®∞ dopo) costituita dalla nostra presa di parola. Non era mai una

critica; era piuttosto una suggestione creativa, che poneva l’elemento queer come

quell’entit®§ materialsociale, naturculturale, in continua trasformazione, che ci invita a

disimparare le pratiche e le teorie dominanti e a intessere rapporti nuovi tra saperi,

soggettivit®§, corpi, specie, e oggetti.

Soprattutto, la domanda “dov’®® il queer?” sintetizza la capacit®§ di Liana di reintrodurre

sempre, in qualsiasi contesto, in qualsiasi sapere, in qualsiasi campo pi®¥ o meno

istituzionalizzato, qualcosa che viene da un altro contesto. Sintetizza la sua capacit®§

di richiamarci al dare conto di s®¶ e di compiere attraversamenti che sono anche

elementi di disturbo e destabilizzazioni di confini

La frase che dovrebbe aprire il mio intervento, come produttiva diffrazione del suo, ®®

“Sto per deludervi”.

Sto per deludervi come penso di avere deluso lei, perch®¶ Liana aveva una grande

capacit®§ di farci sentire viste, significanti e significative, ma anche di stimolarci

appunto ad andare oltre, e questo spesso mi ha fatto sentire “non abbastanza”: non

abbastanza queer, non abbastanza politica, non abbastanza dentro le cose, non

abbastanza fuori dalle cose, non sono andata abbastanza lontano, non sono rimasta

abbastanza vicino – non abbastanza. Si tratta per®∞ di un “non abbastanza” abilitante,

non disabilitante; empowering, non disempowering; una delusione positiva,

rinforzante, che mi/ci ricorda che c’®® ancora da fare e che possiamo farlo; forse

assomiglia un po’ alla “queer art of failure” di Jack Halberstam, il fallimento produttivo

4

di chi come noi si ritrova qui a chiedersi che cosa si pu®∞ fare, ancora e oltre.4 Sto per

deludervi, e spero che questo ci porti altrove.

Cercher®∞ di parlare al presente e al futuro. Se parlo al passato, ®® uno sbaglio –

perdonatemi. Parler®∞ al presente e al futuro perch®¶, nonostante e con Lee Edelman,

penso che si debba continuare un lavoro che ci porti fuori dalle futurit®§ etero e omonormative

di trasmissione riproduttiva e patrimoniale (e sottolineo patrimoniale);

perch®¶ nemmeno per un momento voglio pensare che con Liana finisca qualcosa.

Con Liana, lo dico per esperienza, comincia sempre qualcosa.

Circa due mesi dopo che Liana ha abbandonato questa piega spaziotemporale in cui

ci troviamo in questo momento onto-epistemologicamente insieme (ancora Barad), un

lutto ancora pi®¥ grande mi ha colpita e ha cambiato la mia vita per sempre. Questo

lutto irrimediabile mi ha insegnato moltissime cose, tra cui il senso della presenza di

chi sembra essere andata via senza potersene andare mai davvero. Una delle cose

che ho imparato ®® che, per quanto possa sembrare controintuitivo, non c’®® in realt®§

un lutto pi®¥ grande di un altro. Quando un lutto “pi®¥ grande” mi colpisce, per me ®®

come se entrambi i lutti si potenziassero a vicenda, e ognuno diventasse, in virt®¥

dell’altro, un po’ pi®¥ grande. E’ una pi®¥ grande assenza, una pi®¥ forte presenza, una

pi®¥ forte spinta a vivere – un vitalismo buono, innamorato del vivente e dell’inorganico

come in Ortese e LeGuin di cui Monica Farnetti ha scritto cos®¨ bene.5

Ancora un caveat: quando una cosa “non mi funziona”, lo dico (e uso qui il linguaggio

tagliente di Francesca Manieri, perch®¶ la diffrazione non riguarda solo Liana; vorrei

diffrangere un po’ tutte).6 Ci sono tante cose che non mi funzionano con Liana e tante

altre che mi funzionano benissimo. Il coming out di classe ®® una di quelle cose che mi

funzionano poco, e Liana lo sa. Spiego anche questo tra un attimo.

Gli attraversamenti e l’andare altrove cominciano presto, per me, con Liana. Una delle

prime cose che lei mi chiede di scrivere ®® una voce sul “Postumano” per una collezione

edita da Meltemi, che esce nel 2004, curata da Michele Cometa, che si intitola

Dizionario degli studi culturali. Mi dice, “ho troppo da fare, ti va di farlo tu?” – a me, che

prima di tutto non so che cosa siano gli studi culturali, e secondo non ho affiliazioni di

4 J. Halberstam, The Queer Art of Failure, Duke University Press, Durham, NC, 2011.

5 Basti pensare al bellissimo contributo di Monica Farnetti per Tessiture (“L(’)i(gu)ana“, pp.102-113.)

6 Ancora in Tessiture, pp.124-129.

5

nessun tipo, meno che mai accademiche. E, con quello che scoprir®∞ poi essere una

delle sue modalit®§ tipiche, mi mette tra le braccia questa possibilit®§ abilitante,

potenziante, empowering, con l’aria grata di chi riceve – lei, da me – un favore. Fastforward

sei mesi dopo, e mi ritrovo ad avere un’affiliazione accademica proprio nel

campo degli studi culturali, perch®¶ ho deciso di usare i miei risparmi di una precedente

vita lavorativa per autofinanziarmi un master e poi un dottorato a Goldsmiths, Londra.

Tutta colpa di Liana, che mi ha fatto la sua dichiarazione performativa abilitante. “Ce

la puoi fare”, mi dice. E io lo faccio.

Faccio un veloce excursus a proposito dell’imperialismo culturale angloamericano,

che ®® stato messo troppe volte in relazione con i queer studies, e dal quale Liana,

nonostante o forse proprio a causa della sua formazione anglistica, si teneva ben

lontana. Scrivendo del postumano, mando la prima traccia a Liana e dico,

tremebonda, “Come ti sembra?” Lei mi risponde: “S®¨, Federica, va abbastanza bene,

ma c’®® un grosso problema. Ti hanno chiesto anche una bibliografia, e nella

bibliografia tu citi solo fonti angloamericane. Non va bene. Ci devi mettere altro, cara”.

Ritorno al “ce la puoi fare”. Faccio, e mi ritrovo a Goldsmith, Dipartimento di Media

and Communications, che per®∞ si pu®∞ considerare un dipartimento di studi dei media

e studi culturali (in dialogo, allora, col parallelo Centre for Cultural Studies). Questo ®®

importante non perch®¶ ®® la mia storia, che qui si ferma perch®¶ non interessa in questo

dibattito, ma per tre motivi, che tutti afferiscono a Liana. Numero uno: cultural studies

non ®® queer studies ma ®® “accanto” a queer studies – dentro e fuori, in una specie di

intersecazione dinamica, ed ®® un campo che vuole essere anche dentro e fuori

l’istituzione accademica, se mai ®® possibile, senza essere incorporato e cooptato in

essa. Numero due: gli studi culturali sono un campo in decostruzione (e il pensiero di

Liana ®® almeno in parte decostruzionista, lo voglio ricordare). Numero tre: cultural

studies oggi ®® “in rovine”7.

Comincio dal primo punto. Cultural Studies non ®® propriamente queer studies. E’ e

non ®®. In quel particolare dipartimento di Goldsmiths, nei primi anni Duemila, ci sono

figure che Liana amer®§ poi molto: Luciana Parisi e Sara Ahmed, per fare qualche

esempio – femministe importanti, teoriche importanti, che intraprenderanno azioni

7 Ho in mente qui il titolo del famoso testo di Bill Readings The University in Ruins (Harvard University Press, 1996),

che ha acquisito un nuovo significato con gli sviluppi dell’università neoliberista angloamericana dell’ultimo ventennio.

6

politiche importanti (Ahmed) o che sono state dentro gruppi politici e teorici radicali,

insieme a persone come Mark Fisher. Studi culturali significa “stare accanto” a queer

studies, e “stare accanto” significa amare, amare molto, significa rispettare, ma

significa anche spesso trovarsi in difficolt®§. Cos®¨ Liana comincia a rivolgere a me

questa domanda, sempre pi®¥ spesso. “S®¨, ma qui dov’®® il queer?” Certe cose che

faccio non sono abbastanza queer. Il mio primo libro, ne sono certa, non ®® abbastanza

queer. Lei non me lo dice proprio chiaramente, ma secondo me ®® un po’ delusa. Lo

stare accanto ci espone a delusioni.

Faccio un passo indietro sul titolo di questo sconnesso intervento, cos®¨ avanzo anche

un punto – oserei dire – quasi programmatico. Quando mi ha chiesto (forse

incautamente) questo contributo, Clotilde mi ha ricordato un mio intervento di anni fa

su oggetti, tecnologia e affettivit®§ che le era piaciuto. Non eravamo sicure n®¶ io n®¶ lei,

ma penso si riferisse a un contributo intitolato “Oggetti del sapere nell’universit®§

globale” presentato nel 2011 a Duino, a quella che era diventata la nuova versione

della Scuola Estiva “Raccontar(si)” dopo Villa Fiorelli. Se si tratta di quello, ricordo che

arrivai a Duino trafelata, e fallii completamente il tema del convegno, perch®¶ presentai

una riflessione su che cosa contasse come oggetto del sapere nell’universit®§ che si

stava neoliberalizzando e globalizzando – in quella che sembra una fotografia d’epoca,

a riguardarla adesso, undici anni dopo – mentre Liana, in quegli anni, stava ragionando

di archeologia degli affetti, relazioni affettive con l’inanimato, Cvetkovic, corpi migranti,

spazi pubblici e scarpe. L’intervento, inaspettatamente, piace a Liana, che ci trova

delle assonanze con quello che sta facendo. Perch®¶ con lei ®® sempre cos®¨, e questo

®® importante ricordarlo. Io porto ci®∞ su cui sto lavorando, e poi ci pensa lei a dargli un

senso. O meglio, ci pensa lei e, con lei, ci pensiamo tutte. Il punto programmatico ®®

questo. Liana adesso non pu®∞ pi®¥ dare un senso ai miei e nostri frammenti come

faceva prima. Per®∞ lo far®§, io credo, in altro modo. Attraverso di noi e con noi. Bisogna

che mettiamo in mezzo, o che “buttiamo dentro”, tutto: le nostre idee che non sono

mai distinte dal vissuto e le nostre pratiche che sono sempre gi®§ pensiero – perch®¶ ®®

questa inseparabilit®§ di teoria e pratica che contraddistingue e ha sempre

contraddistinto i nostri movimenti. Buttiamo dentro tutto, buttiamo in mezzo tutto, ed ®®

solo cos®¨ che si lavora davvero. “Buttare” non significa “buttare l®¨”. Significa offrire. Io

vorrei cominciare con l’offrire uno statement quasi assiomatico che mi ®® venuto

qualche giorno fa: le idee vengono sempre alle altre, mai a noi (oppure: vengono

7

sempre all’altra, mai a me). Questo l’ho imparato insegnando e anche attraverso

pratiche di scrittura collaborativa. Liana si fida (assurdamente) di me, si fida di noi,

perch®¶ sa che funziona cos®¨. Un’idea cresce solo se le soggettivit®§ e le collettivit®§ la

prendono and they run with it (uso un anglicismo): l’accettano, se ne assumono la

responsabilit®§ e la adoperano; letteralmente: con quell’idea corrono. Liana ci regala

sapere ma non ci fa una concessione – forse ®® questa la caratteristica distintiva della

sua generosit®§. Ci chiede di vivere le cose che lei traspone per noi. Di farne qualcosa.

Di non lasciarle lettera morta, per favore, grazie.

Questo ®® il primo punto: Stare accanto. Salto ora al terzo punto; poi torner®∞ al

secondo. Il primo punto riguardava i radicali, politici, attivistici studi culturali e queer

dei primi anni Duemila. Anni entusiasmanti. Ecco dove sono, ecco dove siamo ora.

Ho alcune foto:

8

Questo ®® il dipartimento di Arts and Humanities di una universit®§ del Regno Unito che

non nominer®∞. Vedete come si presenta? Corridoi vuoti, uffici deserti, nomi di colleghi

che se ne sono andati letteralmente divelti da porte e muri. Qui c’era letteratura

angloamericana; qui invece c’era un dipartimento di arti performative al top della REF

9

20218, con un bellissimo gruppo di lavoro sull’embodiment queer. “Dov’®® il queer?”,

mi chiedeva Liana. Ecco dov’®® il queer adesso.

L’universit®§ neoliberale britannica non richiede solo un’analisi intersezionale (ad

esempio, di come il gap retributivo colpisca donne e BAME9 a fronte della retribuzione

pi®¥ elevata dei maschi bianchi). E’ anche importante fare un’analisi di classe, perch®¶

queste fotografie e queste politiche governative ci dicono che il diritto alle arts and

humanities, visto come “sapere fine a se stesso” e il diritto alla teoria e alla critica sono

diritti di ®¶lite, per chi frequenta universit®§ di ®¶lite; pensare ®® diritto delle ®¶lite

economiche che hanno accesso a scuole secondarie private, le quali forniscono la pi®¥

alta percentuale di studenti alle universit®§ di ®¶lite. La percentuale di studenti BAME

nelle universit®§ di ®¶lite ®® bassa ma superiore a quella degli studenti provenienti da

zone di “disagio socioeconomico”.10 Ci®∞ si applica anche agli insegnanti universitari,

specie in una congiuntura storica in cui le universit®§ britanniche si stanno dichiarando

in massa “in rosso” e considerano i tagli alle arts and humanities la via pi®¥ breve verso

la quadratura del bilancio.11 Le ragioni, squisitamente economiche, impattano

fortemente quella che in tempi molto antichi si sarebbe chiamata autodeterminazione

femminile: se non si ®® parte di una coppia (gay o etero) con qualcuno che abbia a sua

volta uno stipendio non si pu®∞ sopravvivere. Se si vuole intraprendere la professione

accademica, ®® una buona idea anche poter contare su un cospicuo patrimonio

familiare. Altrimenti, l’accademica single (queer e non) si colloca facilmente sotto la

soglia di povert®§, specie se consideriamo la retribuzione oraria. Quando studiavo, nei

primi anni Duemila, i miei insegnanti non lavoravano settimane di 50, 60, 70 ore, senza

serate libere, senza weekend, senza tempi di riposo, senza ferie. A poco pi®¥ di un

decennio di distanza, il nostro salario ha perso il 20% del suo potere di acquisto mentre

il carico di lavoro ®® fortemente aumentato. Normalmente oggi un* accademic* con un

impiego stabile lavora l’equivalente di due giorni lavorativi non pagati a settimana

8 REF (Research Excellence Framework), esercizio quinquennale di valutazione della ricerca a livello

nazionale.

9 Black and Ethnic Minorities.

10 Nel 2022 un rapporto ufficiale dell’università di Oxford dichiara che la percentuale di studenti che si

identificano come BAME è salita dal 18% al 25% e quella degli studenti provenienti da zone disagiate

dal punto di vista socioeconomico dall’11% al 17% (University of Oxford Annual Admissions Statistical

Report, 2022 https://www.ox.ac.uk/sites/files/oxford/AnnualAdmissionsStatisticalReport2022.pdf).

11 R. Clare, How Working-Class Academics Are Set Up to Fail, The Tribune, 2020,

https://tribunemag.co.uk/2020/10/how-working-class-academics-are-set-up-to-fail. Si veda anche il

sito della AWCA (Alliance of Working Class Academics),

https://www.workingclassacademics.com/news.

10

(circa 16 ore); la forza lavoro casualizzata lavora non pagata quattro giorni su cinque.12

La pratica del “fire and rehire” ®® sempre pi®¥ diffusa e ha in certo modo precarizzato

anche i contratti a tempo indeterminato.13 L’anno scorso sono stata in malattia dieci

mesi per ansia, depressione e cardiopatia da stress. Met®§ della forza lavoro nelle

universit®§ britanniche ha sintomi di depressione (le percentuali variano da istituzione

a istituzione e possono essere anche molto pi®¥ alte); siamo sottodimensionati,

bullizzati e facciamo parte di uno dei settori professionali qualificati ad alto rischio di

suicidio (preceduti dagli insegnanti di scuola primaria e secondaria e dal personale

sanitario, soprattutto dalle infermiere).14

Due giorni fa, gioved®¨ 30 novembre 2022, c’®® stato il pi®¥ grande sciopero nazionale

della storia nel settore universitario. A dire la verit®§, l’interno Regno Unito ®® in sciopero:

trasporti, poste, infermieri, autisti di ambulanze, insegnanti. Il tasso di persone

homeless “visibili” (quelle che dormono per strada, che sono la punta di un iceberg) ®®

pi®¥ che raddoppiato dal 2010. E’ sempre stato cos®¨: “Tories back in office, people back

on the street”, i conservatori al governo, la gente sulla strada.

Personalmente, porto sul corpo i segni della violenza del sistema neoliberista. Sono

piena di farmaci e la mia aspettativa di vita si ®® accorciata.

Ho bisogno che il movimento queer faccia coming out di classe – cosa che forse non

siamo state tanto propense a fare in questi anni. Ho bisogno che la dichiarazione di

privilegio (“sono una soggetta bianca privilegiata in quanto docente universitaria con

posizione di lavoro stabile”) sia declinata in molte pi®¥ sfumature di quelle che usiamo

al momento, che in inglese si direbbero “perfunctory”, una forma di “paying lip service”,

una specie di “mettersi la coscienza a posto”. Non siamo pi®¥ negli anni Ottanta, e se

all’epoca Donna Haraway poteva dichiararsi middle class in quanto accademica, oggi

le cose sono cambiate. Io non mi sento n®¶ mi sono mai sentita middle class, ma anzi

working class (borderline under-class se dovessi perdere i lavoro). “Dov’®® il queer?”

12 T. Williams, Lowest paid in academia work four days for free every week, Times Higher Education,

20.06.2022, https://www.timeshighereducation.com/news/lowest-paid-academia-work-four-days-freeevery-

week

13 “Fire and rehire” è il processo per cui si viene prima messi in esubero e poi ci si deve ricandidare

alla propria posizione di lavoro e si è riassunti a condizioni peggiori.

14 A. Oswald, Middle-aged academics are at greater suicide risk than students, Times Higher

Education, giugno 2018; M. Martin, Rise in teachers ‘at risk of suicide’, TES Magazine, 20 ottobre

2022.

11

mi chiede dunque in questi anni Liana – e io le rispondo invariabilmente: “Liana, se

non accetto di smettere di pubblicare per fare invece il controllo qualit®§ di un corso di

laurea in informatica dato in outsourcing a un’azienda privata, mi licenziano”. Ecco

dov’®® il queer.

Gli studi culturali sono un campo disciplinare che ha seguito un percorso simile ai

queer studies e nello stesso tempo inverso. E’ un campo britannico, non americano

(diciamo, semplificando, che i cultural studies negli Stati Uniti hanno una storia molto

diversa). E’ un campo nato nel secondo dopoguerra per opera di alcuni studiosi di

letteratura inglese maschi, bianchi, marxisti. In parole semplici, i cultural studies

partono della semplice premessa che l’ universit®§ ®® un luogo di oppressione, un

dispositivo di repressione e di mantenimento dello status quo. Cultural studies ,come

campo disciplinare, ha sostituito Shakespeare con le soap opera e ha dichiarato che

la cultura della classe operaia ha lo stesso valore della cultura letteraria “alta”. Ci sono

volute alcune generazioni per svegliare questi maschi bianchi sulle problematiche di

razza e genere.15 In compenso, i cultural studies mi hanno abilitata a parlare di classe

in un modo che non avevo mai conosciuto prima.

Dov’®® il queer? Il queer ®® un movimento interclassista? (Istintivamente suggerisco di

rispondere: no, almeno finch®¶ non far®§ della classe un’analisi esplicita). Il queer e’ un

movimento class-blind, che non vede la classe e forse si rifiuta di vederla?

(Suggerimento: forse, e bisogna fare attenzione). Personalmente ho un grande

bisogno che i movimenti che si riconoscono in qualche modo nel queer prestino pi®¥

attenzione al coming out di classe, in Italia e in altri paesi. Brutalmente: molte delle

persone con cui faccio attivismo di base (grassroot activism) in altri campi in Italia e

all’estero, so di che cosa vivono. Nei contesti queer ne sono meno sicura.

Ho bisogno di stare dentro a diversi movimenti e forme di attivismo di base, anche non

queer. Per esempio, ho bisogno di stare dentro a un gruppo di ricerca e attivismo che

si occupa di medicina di prossimit®§ come parte della campagna internazionale

“Primary Healthcare: Now or Never”, contestualizzato in un quartiere periferico di una

15 E. Probyn, A Feminist Love Letter to Stuart Hall; or What Feminist Cultural Studies Needs to

Remember, Cultural Studies Review, 22(1), 2016

https://epress.lib.uts.edu.au/journals/index.php/csrj/article/view/4919/5420

12

piccola citt®§ italiana, e sto mettendo a loro disposizione le mie competenze di socioantropologia

e la mia esperienza di cittadina che ha fatto da carer per anni.16 Ho

bisogno di stare dentro a tante realt®§ perch®¶ so che cosa vuol dire la privatizzazione

del sistema sanitario, lo provo sulla mia pelle da vent’anni e ne porto, appunto, i segni.

Voglio difendere il sistema italiano perch®¶ non diventi mai come quello britannico. E

ho bisogno di tenere insieme queste tensioni.

Ho bisogno che teniamo a mente, come movimenti, che tanto c’®® sempre violenza, la

materia ®® performativa e dunque sempre escludente (ancora Barad); ogni volta che si

materializza, essa opera un taglio epistemontologico, una esclusione, e questa non è

solo una bella figurazione, ma una ferita.

Ho bisogno che ragioniamo non solo sull’ottimismo della volont®§ (affiancato dal

pessimismo della ragione) e sull’utopia ma anche sul “cruel optimism” di Lauren

Berlant, che Liana conosce cos®¨ bene. Perch®¶ queer non diventi mai, nemmeno

involontariamente, una forma di ottimismo crudele. Sono sicura che Liana di queste

cose ha parlato, ma negli ultimi tempi io ero troppo sotto la linea dell’orizzonte per

mantenere i contatti con lei in modo adeguato. Vorrei recuperarle, penso che siano

importanti.

Oltre al primo e al terzo punto, ho gi®§ sfiorato anche il secondo: gli studi culturali sono

un campo in decostruzione.17 Anche i queer studies sono un campo in decostruzione

e il pensiero di Liana ®®, almeno in parte, decostruzionista. Allora ritorno su questo

punto, cos®¨ ritorno anche a Liana e concludo.

Il pensiero di Liana ®® per me allineato con il decostruzionismo, inteso in senso lato

come la capacit®§ di continuare a usare un sistema concettuale pur indicandone i limiti,

cio®® standone sia dentro che fuori. Forse non Liana non lo ha mai detto apertamente.

Infatti ogni volta he le ho rammentato come il ragionamento di Butler sul genere venga

da Jacques Derrida e dall’aporia del genere, ogni volta che ho citato di conseguenza

16 A. Panajia et al., Il Libro Azzurro per la riforma delle cure primarie in Italia, Primary Care, settembre

2021,

https://www.researchgate.net/publication/355164944_IL_LIBRO_AZZURRO_PER_LA_RIFORMA_D

ELLE_CURE_PRIMARIE_IN_ITALIA.

17 G.C. Spivak (2000) Deconstruction and Cultural Studies: Arguments for a Deconstructive Cultural

Studies, in N. Royle (a cura di) Deconstructions, Palgrave, London.

13

i pensatori decostruzionisti che si mescolano nel mio lavoro (maschi, ahim®®, e

nemmeno gay: non solo Jacques Derrida, ma anche Gilbert Simondon e Bernard

Stiegler) ha sempre fatto finta di guardarmi con orrore. Liana ha sempre chiamato

Bernard Stiegler (uno dei pi®¥ grandi filosofi francesi del ventunesimo secolo che

purtroppo ci ha lasciato qualche anno fa) “quel tuo amico”.

Per me, non si pu®∞ essere queer senza essere decostruzionisti. Il genere, per Butler,

®® quello che per Derrida ®® la firma, l’evento impossibile che stabilisce l’origine e

l’autenticit®§. Non c’®® e non c’®® mai stata una firma originaria, la mia prima firma perfetta

a fronte delle quali tutte le mie successive firme possono essere verificate e

autenticate. Allo stesso modo, non c’®® un genere originario. C’®® solo una

dichiarazione di genere (“complimenti, care mamme, ®® una bella femminuccia”) che

fa del corpo la copia dell’inesistente corpo originale di una neonata essenzialmente

femmina. Poi, per fortuna, ®® arrivata Karen Barad che (nell’intervento del Prado Liana

ne parlava) ha dato una mano a liberare i queer studies del fondamentale

fraintendimento di Butler, che sostiene che Butler ignori il corpo. Neanche per sogno,

dice Barad. E’ solo che l’osservato non preesiste n®¶ l’osservatore n®¶ lo strumento di

osservazione, il quale a sua volta ®® un apparato conoscitivo sociotecnico che

introduce un “taglio” ontoepistemologico nel continuum della materia. Teorie, concetti

e strumenti sono degli assemblaggi umani e tecnici che costituiscono una “lente”

attraverso la quale osserviamo l’universo. Ma noi siamo parte dell’universo osservato

e ce ne differenziamo solo nel momento in cui ci facciamo lente. Non c’®® n®¶ un

osservatore n®¶ un osservato, ma solo la materia che si autodifferenzia costantemente,

solo l’universo che in questo processo di autodifferenziazione si rende intelligibile a

(una parte di) se stesso. “Oh guarda, qui ci siamo io e una particella”. “S®¨, ma ®® perch®¶

si sta usando quello strumento l®¨. Se si stesse usando invece questo qui, ci saremmo

io e un’onda. La particella non ci sarebbe e forse non ci saresti neanche tu”. Questo

taglio (il taglio agentivo, l’agential cut), che Barad chiama intra-azione (per significare

che non ci sono due entit®§ che inter-agiscono ma due entit®§ che co-emergono nel

momento dell’azione), questo “taglio” ®® sia epistemologico (cognitivo, ci d®§ a vedere

la realt®§) sia ontologico (costituisce, crea la realt®§). Allo stesso modo, la comunit®§ ®®

aporetica, sostiene Jan-Luc Nancy: a costo di semplificare molto, se voglio la

democrazia, devo escludere le forze politiche totalitarie, quindi un sistema

democratico si costituisce sempre su un atto di violenza originaria. Questa ®® l’aporia

14

del genere, l’aporia della firma, l’aporia delle origini, l’aporia della comunit®§ (o la

comunit®§ in decostruzione). Ogni sistema concettuale opera un’inevitabile esclusione,

deve avere necessariamente un punto cieco che non ®® pensabile all’interno di quel

sistema; altrimenti non si d®§, non riesce a esistere. Tendiamo all’esistente, ma siamo

sempre “in decostruzione”, instabili. L’unica scelta etica ®® quella che non oscura la

violenza originaria che ci permette di costituirci e di esistere; inevitabile, certo, ma

proprio perci®∞ se ne deve dare conto.

Liana riusciva cos®¨ a tenere insieme molte tensioni. Il punto programmatico, qui,

sarebbe quello di nominare le nostre aporie. Nominiamo anche la decostruzione (lo

dico da uno spazio di pensiero che mi costituisce anche come marxiana e

foucaultiana), perch®¶ non ®® un vecchio impianto concettuale per pensare la letteratura,

ma un modo per adoperare i concetti vedendone e indicandone i limiti e standoci

dentro ugualmente. Parliamo di aporia, nominiamola, accettiamola, se no ogni volta ci

incartiamo in opposizioni impossibili. Perch®¶ anche questo ®® il modo che Liana ci

suggerisce per stare “accanto”, per vivere con le tensioni e le instabilit®§ radicali.

Se Liana fosse qui adesso con le modalit®§ di prima, le direi che ho finalmente messo

a frutto il pensiero di Butler e Barad in un modo che forse le pu®∞ piacere. Ci sono voluti

solo altri dieci anni. Sto lavorando ancora sui tecnocorpi – e se dovessi enunciare un

altro punto programmatico direi che mai come oggi ®® stato importante studiare i

tecnocorpi, da quelli prodotti dalla pandemia a quelli della sorveglianza globale. E

improvvisamente, anche e soprattutto grazie a una giovanissima collega femminista

di Cambridge, Eleanor Drage, che ha delle intuizioni pazzesche che a Liana

piacerebbero tantissimo, improvvisamente mi salta fuori che anche la firma digitale –

quella cifra su cui si basa il riconoscimento facciale negli aeroporti, oppure negli

smartphone, oppure il riconoscimento delle impronte digitali – ®® a sua volta una copia

senza originale.

Se Liana fosse qui con le modalit®§ del nostro spaziotempo, le porterei le teoriche,

filosofe, scienziate, data scientists, giovanissime, femministe e non-bianche che

stanno scrivendo libri bellissimi su Intelligenza Artificiale e sessismo, razzismo,

classismo e performativit®§. Forse per una volta avrei letto qualcosa che lei non ha

15

ancora letto (o forse no). Si tratta di Timnit Gebru, Kate Crowford, Ruha Benjmin).18

Siccome con Liana ci siamo incontrate non solo su Haraway e Preciado ma su Hayles

e sulla tecnoscienza e sul rapporto tra scienza e letteratura, le racconterei che l’anno

scorso sono stata al convegno annuale di 4S (gli studi sociali della scienza e

tecnologia, un campo che le interessava molto, il campo con il quale femministe come

Evelyn Fox Keller, Lucy Suchman, e la stessa Haraway conversavano

quotidianamente) e che ho scoperto che ®® pieno di studiose femministe nere, e,

appunto, giovanissime.

Parleremmo di come ormai sia un fatto conosciuto che i sistemi di Intelligenza

Artificiale non siano per nulla obiettivi, che anzi siano razzisti e sessisti. Si tratta dei

sistemi che, anche a nostra insaputa, sorvegliano i confini nazionali, scannerizzano i

nostri passaporti, decidono se abbiamo diritto alla previdenza sociale, calcolano la

probabilit®§ che la nostra faccia sia quella di un criminale o il nostro accento quello di

un terrorista. In realt®§ i programmatori hanno sempre saputo che l’Intelligenza

artificiale non ®® obiettiva, che ha dei pregiudizi. Sono le corporation che vendono

questi sistemi come obiettivi, per esempio ci dicono che usando l’intelligenza artificiale

per selezionare candidati, le aziende possono eliminare il “bias”, quel modo di pensare

che fa s®¨ che i maschi bianchi tendano ad assumere altri maschi bianchi, e si pu®∞ cos®¨

ridurre il gender gap e assumere molte pi®¥ donne (ma ovviamente non ®® cos®¨). Con

Liana forse parleremmo di qualche caso eclatante, per esempio di Elaine Owusu, una

studentessa nera britannica che nel 2020 ha tentato di usare il sistema di AI

dell’HMPO, l’ente britannico per il rilascio dei passaporti, ma questa IA non ®® stata in

grado di riconoscere il suo viso. Questo avviene perch®¶ l’AI ®® fortemente “biased” nei

confronti delle donne nere. E’ un sistema che funziona benissimo nel riconoscere le

facce dei maschi bianchi. Funziona meno bene nel riconoscere le foto di donne nere

o di persone non binarie. E’ quella che Os Keyes, nei suoi studi sulla transfobia

dell’intelligenza artificiale, chiama bullshit technology, tecnologia delle stronzate.19

18 Si vedano ad esempio K. Crowford, Atlas of AI, New Haven e Londra, Yale University Press, 2021;

R. Benjamin, Race After Technology: Abolitionist Tools for the New Jim Code, Polity, 2019; T. Gebru,

“Race and Gender”, in M . D. Dubber, F. Pasquale, S. Das (a cura di) The Oxford Handbook of Ethics

of AI, Oxford University Press, 2020.

19 O. Keyes, “Counting the Countless”, Real Life, 2019, https://reallifemag.com/counting-the-countless/.

16

Oppure parleremmo di quando la polizia di Baltimora ha arrestato uno scuolabus pieno

di bambini di colore che andavano a scuola perch®¶ il loro sistema di polizia predittiva

(una AI che scannerizza i social e traccia gli hashtag come “Black Lives Matter”) li

aveva erroneamente segnalati come potenziali terroristi.

Ad ogni modo, per quanti sforzi si facciano, non si riesce a fare il de-bias di queste

AI, di questo Machine Learning che ®® composto di complicatissime reti neurali che

nessuno riesce a capire, tanta ®® la loro complessit®§. Sono agenti tecnologici autonomi

capaci di imparare e possiamo solo sottoporli a un training migliore, cercare di esporli

a dati di addestramento diversi e “migliori”, sperando che imparino a essere meno

razzisti, sessisti e transfobici – ma ancora non ci ®® riuscito nessuno. L’intelligenza

artificiale continua ad agire la sua violenza, a razializzare violentemente i corpi di

minoranze oppresse. Probabilmente nessuno ®® riuscito a estrarre il bias dall’AI perch®¶’

cambiare i dati di training ®® un metodo bullshit, una stronzata; ®® soluzionismo tecnico.

Non ®® che bisogna togliere i pregiudizi dall’intelligenza artificiale. E’ che bisognerebbe

togliere i pregiudizi dalla societ®§, cio®® dall’assemblaggio sociotecnico di cui tutte

siamo parte.

A Liana piacerebbe sapere che esiste una teoria, pensata da Louise Amoore, un’altra

studiosa femminista, che sostiene che l’AI ®® performativa, cio®® che ®® appunto un

apparato osservatore che “taglia” il mondo nel senso di Barad, e che AI performa il

reale insieme con il resto della socio-tecno-umanit®§, e che siamo tutte parte di questa

performativit®§’, e che infine bisogna ripensare l’etica e la politica dell’AI tendendo

conto di questo. Forse le piacerebbe anche sapere che, partendo dalla teoria di

Amoore, Eleanor e io abbiamo aggiunto l’idea che, oltre alla performativit®§ osservativa

di Barad, anche la performativit®§ citazionale di Butler gioca una parte importante in

questo processo. In altre parole, non e’ possibile correggere il razzismo e il sessismo

di AI perch®¶’ anche AI, come noi, lavora con copie senza originali: le prima volta che

mi registro sul mio nuovo iPhone per attivare il riconoscimento facciale, l’iPhone crea

una rappresentazione digitale del mio viso. Poi, ogni volta che l’iPhone mi vede e mi

“riconosce”, ®® come se mi facesse una foto digitale e la confrontasse con l’originale

che ha memorizzato. Indovinate? Mi riconosce solo se la nuova foto ®® simile

all’originale memorizzato, ma anche un po’ diversa. Questo si chiama riconoscimento

“by proxy”. Funziona cos®¨. Il mio iPhone sa che il mio viso non si presenta mai uguale,

che e’ l’insieme di infinite micro-variazioni dovute a luce, angolatura, stanchezza,

17

occhiaie. Se per assurdo gli presentassi una copia perfetta del viso che ho registrato

la prima volta (una copia perfetta dell’originale), l’iPhone andrebbe in allarme e

sospetterebbe una frode. Il che rende il riconoscimento facciale estremamente sicuro,

perch®¶ una copia perfetta sarebbe sicuramente una simulazione, magari rubata da

qualche hacker. Questo processo rende per®∞ anche visibile un aspetto importante, e

cio®® che l’iPhone funziona secondo il principio di Butler: non ci sono originali, solo

copie di copie.

La soluzione al bias dell’AI probabilmente non esiste semplicemente perch®¶ bisogna

cambiare la domanda. Non dobbiamo chiederci come possiamo usare l’IA in modo

meno razzista”, ma quali usi e quali compiti non dovrebbero nemmeno esistere (n®¶

tantomeno essere lasciati a una IA). Ancora meglio, dovremmo chiederci come

possiamo convivere con questi agenti tecno-umani con cui, probabilmente, abbiamo

anche sviluppato degli attaccamenti e condividiamo degli affetti. Oppure come

possiamo rendere visibili i limiti, i confini, le esclusioni e le invisibilizzazioni che l’AI

rende possibili.

Ma Liana non e’ in questa piega spaziotemporale, non ora. Perci®∞ posso soltanto

suggerire questi pochi punti. Nominiamo le aporie. Stiamo accanto. Stiamo con la

tensione, vediamo fin dove essa ®® sostenibile e come fare per sostenerla. Non

oscuriamo. O meglio, dato che oscurare ®® inevitabile, puntiamo il dito verso ci®∞ che

stiamo oscurando, dichiariamolo, facciamo in modo che qualcuno veda ci®∞ che noi

non vediamo. Per farlo bisogna essere in una dimensione collettiva, e questo ci

rassicura. Ci sarebbe da preoccuparsi solo se tutte vedessimo la stessa cosa, ma per

fortuna ci®∞ ®® impossibile.

Continuiamo a performare delle cose, delle situazioni, degli interventi. Prima con

Marco Pustianaz parlavamo della collana editoriale “Altera”. Anche Altera ®®

performativa. Performa qualcosa, ®® un intervento, ®® un taglio nel mondo. L’obiettivo ®®

non nascondere dove facciamo il taglio escludente che ci delinea rispetto al mondo,

che ci fa emergere dal mondo. Questo taglio, per fortuna, ®® sempre, inevitabilmente,

gi®§ in disfarsi (in decostruzione). Ma questo disfarsi bisogna renderlo visibile. E’

un’operazione difficile, ma non so se abbiamo altra scelta. Liana ci ha portate altrove

e ci porter®§ altrove ancora. L’importante ®® che continuiamo a “correre” con le sue idee.


Traduzione dell’intervista a Sara Ahmed in video, a cura di Maria Nadotti

[NOTA: usiamo il femminile plurale nella trascrizione]

Piacere di incontrarti.

Lo stesso per me, ciao.

Inizi questo libro, in italiano Vivere una vita femminista, e inizi dicendo… ti cito:

“Cosa senti quando senti la parola femminismo?”, e tu dici che è una parola che “mi riempie di speranza ed energia”. Parliamo di queste parole: speranza ed energia, mi piace la combinazione.

Sì, certo mi fa pensare alla lotta politica e senza dubbio alla difficoltà e al dolore che questa si porta dietro, ma in parte proprio per questo mi riempie anche di speranza ed energia perché mi ricorda… Sì, questa parola è un promemoria di tutte coloro che si sono alzate in piedi e hanno risposto, hanno detto di no alle strutture sociali esistenti, a quelle strutture in cui si sono trovate e penso che quando sento la parola femminismo, sento anche quella storia di rifiuto collettivo, la volontà di lottare per qualcosa, per qualcosa di più, lottare contro un sistema che in realtà punisce chi lotta. Quindi quando penso a quella parola, per me in qualche modo si porta una storia di lotta politica, sento quella parola e mi viene subito in mente quella lotta.

Tu inventi molte figure nel tuo libro… molto utili in questa storia di… La mia preferita è la guastafeste che è un misto di resilienza, testardaggine, creatività… e quindi da dov’è che viene lei, questa persona guastafeste?

Sì, è una bella domanda. Viaggio con la femminista guastafeste da molto tempo, quindi spesso penso a lei come a una mia compagna, e parlo con lei come a una mia compagna, anche se a volte parlo di me in quanto lei. Quindi può sembrare una figura molto personale, puoi quasi diventare lei ma, allo stesso tempo, viene da fuori, è vicina a noi, ma fuori da noi.

E penso sia importante perché la guastafeste femminista, anche se è da molto tempo che viaggio con lei, e ho scritto su di lei, pensato a me in quanto lei… Lei ha una lunga storia politica cominciata come uno stereotipo sulle femministe, e il motivo per cui rispondiamo al sessismo, al razzismo, alle molestie è perché stiamo provando a metterci in mezzo alla felicità altrui. Lo stereotipo delle femministe che sono piuttosto arcigne e forse persino miserabili è ciò che vogliono causare. Da un certo punto di vista è invitante quando pensi a… dei modi per far sì che le persone entrino in contatto con il femminismo, potrebbe essere piuttosto allettante distanziarsi da questa figura, “chi vorrebbe esserlo?”. E penso che la cosa potente del rivendicarla… non sei reindirizzata dal giudizio negativo nel prendere le distanze da lei: sei disposta a reindirizzare quella negatività e dici: “Wow, ok, se parlare di sessismo, razzismo, molestie, violenza ti rende triste… allora lo vogliamo fare, vogliamo renderti infelice, se questo è quello che ci vuole”.

E una cosa che ho notato da quando ho iniziato a parlare di guastafeste femministe è che mi sono accorta di come le persone reagiscono a questa figura che spesso emerge in situazioni piuttosto difficili e dolorose, sai causare l’infelicità delle persone che ami non è il posto migliore in cui trovarsi. Tuttavia quando le persone sentono parlare di lei, quasi si alzano in piedi e sembra esserci qualcosa di energizzante in lei, nell’usare quella parola che le persone possono sentire, e le persone fanno: “Sì, sì, sono io!”. Mi ricordo di una lettrice che mi ha detto, quando mi ha scritto una lettera: “Ho letto della guastafeste femminista e ho pensato ‘sì, sono proprio io’”. Penso sia qualcosa vicino al sollievo quando c’è una parola o una figura che dà un senso a una sensazione che avevi sentito in precedenza senza avere le parole per definirla.

Quindi penso che la figura della guastafeste femminista diventi un modo in cui diamo un senso alle nostre esperienze di intralciare, di diventare il problema. Ma lei diventa anche un modo per connettersi con le altre, e questo credo sia ciò che la rende una figura potente. È l’origine di quella connessione che è altrimenti diventerebbe qualcosa di molto difficile.

Poi tu rendi molto chiaro che la guastafeste in realtà sta reagendo, quindi non è lei che dà inizio a qualcosa. Sì, dà anche inizio a qualcosa ma, principalmente, sta reagendo a qualcosa

che sente che non è buono, quindi la figura della guastafeste femminista rivela, disvela qualcosa che solitamente viene tenuto segreto. Quindi ti obbliga ad andare oltre alle azioni che compi, e politicamente parlando è molto utile e volevo chiederti questo: usi molti verbi che accompagnano la figura della guastafeste e usi snap e andare in frantumi: parlami un po’ di questi verbi che metti, perché tu crei un vocabolario, un vocabolario politico, un lessico. Iniziamo con lo snap che va insieme a un gesto… e parleremo anche di questa idea che ho avuto leggendo il tuo libro: è teatro. Nel tuo libro posso già vedere la possibilità di portarlo in scena, non solo come cosa politica ma anche come un dialogo tra te, te stessa e i movimenti.

Quindi iniziamo con lo snap

Credo sia lo snap che l’andare in frantumi siano verbi piuttosto drammatici. Quindi per me ha senso che tu senta del teatro, in quelle parole e suoni c’è qualcosa di molto teatrale. Non avevo un piano, non avevo cercato un concetto o una parola, ma sono venute a me com … penso.. .stavo probabilmente guardando il film A question of silence e stavo pensando al momento dello sbrocco – snap – in quel film: lo sbrocco, quando queste tre donne semplicemente lo esprimono, tutto il risentimento che avevano tenuto dentro che non avevano espresso, è quel momento in cui lo lasciano andare… e il film mostra uno sbrocco violento: loro commettono un omicidio, ma c’è qualcosa nel modo in cui viene mostrato quel momento… stai tenendo tutto insieme, stai resistendo, sei resiliente… e poi snap: sembra soltanto un momento ma qualcosa si rompe e tutto quello che ti sei tenuta dentro esce. Quando ho visto quel film, si chiama proprio A question a silence, è proprio quello che dicevi prima, il silenzio, quelle cose a cui si reagisce che non sono necessariamente evidenti per le altre persone. Lo snap è un momento con una storia, un momento, una rottura quando qualcosa viene fuori ma in verità quel momento è connesso con tutti quei momenti precedenti in cui non hai detto niente, non hai reagito, non hai sbroccato. Quindi sempre…quando penso allo sbrocco, si tratta di sentire: questo è quello che puoi sentire, senti il suono dello schiocco –snap– ma probabilmente non hai sentito ciò che veniva prima, tutti quei momenti in cui lei è riuscita a sopportare, ci si è abituata. Questo dice qualcosa sullo snap e le tempistiche, e sullo snap e sul sentire: era molto suggestivo e mi ha permesso di pensare a molti dei modi in cui la narrativa femminista, la narrazione femminista ha mostrato lo snap, quei momenti in cui le persone non sono disposte a trattenere qualcosa. Ma fa anche pensare al modo in cui nella vita quotidiana di quella persona questi momenti di sbrocco ci stanno dicendo qualcosa sul tipo di mondo che non vogliamo. Non è necessariamente sempre un’azione pianificata o consapevole quando sbrocchi. Può essere una cosa molto corporea, viscerale: “Adesso basta, ecco, non ne posso più”. Quando penso a sentire lo snap sto spesso pensando anche a sentire i suoni del rifiuto, i suoni del dire “no” che non vengono spesso espressi a parole o in narrazioni coerenti: vengono fuori in altri modi. E uso l’idea dell’orecchio femminista nel capitolo sullo snap femminista in Vivere una vita femminista che è qualcosa che ha senso per me da quando ho iniziato a lavorare su Complaint!: che cosa significa diventare più allenate ai suoni del logorarsi e dell’arrangiarsi, e questo fa anche parte della storia dello snap. Quindi praticamente la parola viene dal guardare un film e dall’essere tra il pubblico e sentire le persone che reagiscono a questo film che mostra tutta la natura logorante del sessismo ordinario. E poi sentire il suono dell’audience, del femminismo che dice: “Ah sì, ho capito, l’ho sentito”. C’è qualcosa in quel suono: ho sentito la parola snap quando ho visto quel film, ho pensato allo snap, e lo snap mi ha permesso di viaggiare da quel film al pensare alla politica dell’esaurimento, all’arrangiarsi e a quello che ci vuole collettivamente per lo snap, per dire “no”.

Quello snap specifico me lo ricordo, me lo ricordo fisicamente: mi ricordo di aver sentito quel suono, ed è stata una gran risata da parte del pubblico. Ho visto il film a New York negli anni ‘80 e mi ricordo che nel momento dell’omicidio tutto il pubblico stava ridendo, e l’omicidio era un atto collettivo, non era individuale, era uno sbrocco: “Sì. È troppo”. Quindi veramente un atto collettivo. Quindi torniamo agli strumenti per il femminismo: questo snap è qualcosa che ognuna sente a un punto specifico, o più di una volta nella vita, ma poi diventa uno snap collettivo. Come mai? Qual è il trigger?

Beh sì è difficile sapere, teorizzarlo in maniera astratta. Che ci vuole? Ci possono essere così tanti affinché una persona arrivi allo sbrocco individuale, o forse lo esprime a qualcun’altra ma non accende quello spostamento collettivo. Ci ho pensato molto specialmente quando pensiamo al movimento politico che è così importante negli ultimi anni: se pensiamo al me too o al black lives matter, che cos’è stato in quel momento che ha fatto in modo che quelle parole facessero breccia e innescassero quel “no” collettivo. Certo, c’erano stati dei no collettivi anche prima, e degli snap collettivi prima, però deve esserci già qualcosa lì perché si diffonda e perché sia uno spazio quasi, uno snap nel senso di spazio che può facilitare e permettere ad altre di dire di no e far parte di un movimento che inizia a dire “no”: “no al razzismo”, “no alla violenza della polizia”, “no alle molestie sessuali”. Io non penso di poterlo teorizzare al livello di causalità storica nel senso di: “cos’è che porta a questo sbrocco, perché questo sì e non un altro”. Penso ci siano molte combinazioni di circostanze che sono impossibili da prevedere o anche solo di rappresentare in una singola istanza. Ci sono tante cose che devono essere al proprio posto perché uno sbrocco si inneschi in maniera collettiva ma quando succede, lo senti veramente, e tutte sappiamo com’è quando ti senti parte di un movimento politico, magari sei in strada a esprimere quel “no”, come ci si sente: la magia assoluta del fatto che puoi cambiare qualcosa, o che qualcosa sta cambiando, qualcosa che prima si pensava fosse inevitabile, “è così”, e quel qualcosa poi si modifica e ne hai la percezione facendo parte della collettività. Un altro modo di fare le cose è possibile, e questa energia, per tornare alla parola di prima, è straordinaria.

Andiamo a un’applicazione storica del concetto di snapping [scattare, sbroccare]: Sojourner Truth, il suo discorso con le femministe. Oppure anni dopo, bell hooks, un altro snapping quando ha scritto la sua tesi Ain’t I a woman?. È uno snapping molto provocatorio, perché è uno sbroccare tra donne, anzi proprio tra femministe, basato sul fatto che alcune donne sono totalmente bianche, altre sono totalmente nere e altre sono tra le due, tu usi la parola brown  per definire te stessa, e quindi questo sbroccare tra donne… che politicamente è un concetto molto audace ma molto utile, e da lì anche tutto il concetto di intersezionalità etc. Non siamo tutte uguali.

Questo è importante, e certamente c’è una lunga storia di donne che contestano il modo in cui altre donne occupano il femminismo in quanto spazio, e quando hanno iniziato a contestare magari hanno sbroccato allo sfinimento di sentire che vengono citate sempre e solo donne bianche, o solo donne che citavano uomini eterosessuali, o quel che è, qualsiasi sia l’esclusione che viene messa in atto. Magari hanno sbroccato ma questo sbrocco non è stato preso bene, e una delle cose che la guastafeste ci insegna è come spesso le persone diventano molto difensive: “Questo è il nostro spazio, ponendo quella domanda o sollevando quella questione – razzismo, abilismo, transfobia, omofobia- sollevando queste questioni ci stai dividendo” come se mostrare una divisione significasse crearla. Per questo per me è stato importante pensare allo sbroccare come a qualcosa che in quanto femminista fai non solo in relazione a un mondo contro cui stai reagendo, ma come qualcosa che succede all’interno del femminismo. Il mondo femminista è costruito con gli stessi mattoni, gli stessi mattoni e acqua di altri mondi, e questo significa che coloro che hanno più potere di rappresentare se stessi, o il cui punto di vista viene preso più seriamente in altri contesti, allora  quel vista sarà preso più seriamente anche nel femminismo. Ed è questa replica di quegli stessi muri che si incontrano nel mondo ma anche all’interno del femminismo che può essere incredibilmente deprimente e difficile. Eppure penso a quello sbrocco quando in realtà mettiamo in discussione il modo in cui gli spazi femministi sono occupati, e questo è qualcosa che dobbiamo imparare a prendere meglio, senza entrare sulla difensiva, trattando il femminismo come qualcosa che ci appartiene. Dovremmo ascoltare lo sbrocco quasi come un regalo politico, una possibilità di capire o di elaborare che cos’è il femminismo, per chi è, a che cosa serve. E come imparare l’una dall’altra nel modo in cui bell hooks, Sojourner Truth, Audre Lorde, e altre femministe nere hanno pensato: prestare attenzione alle differenze senza causare l’impossibilità dell’unità del femminismo, ma come una richiesta per un’attenzione femminista. Sai però molti di questi sbrocchi storici non sono stati presi molto bene. Una delle cose a cui stavo pensando mentre – adesso sto scrivendo il manuale della guastafeste femminista, che è una sorta di Vivere una vita femminista ma è più accessibile, un libro meno accademico – una delle cose a cui mi ha fatto pensare è quella che chiamo una storia dell’obliterare, il modo in cui a volte… c’è un esempio specifico che uso da questo libro degli anni ‘80 che è un libro di una femminista nera britannica e c’è questa storia lì che amo tantissimo di quando lei racconta di come erano a una delle prime conferenze internazionali delle donne a Bristol, e di come lei ha fatto questo punto sul razzismo, e di come avrebbe dovuto essere al centro delle rivendicazioni femministe, ma a un certo punto non era stato nemmeno registrato il fatto che fosse stato fatto, come se non lei non avesse detto nulla. E quindi c’è un modo in cui lo sbroccare può essere obliterato, ignorato, il tuo sbrocco non viene registrato, viene cancellato, dimenticato e quindi penso anche che parte del lavoro femminista sia recuperare quegli sbrocchi e di pensarli come una sorta di discendenza femminista a cui possiamo aggrapparci. Anche questo è lavoro politico.

E infatti parlando di questo, nel tuo libro ho trovato due punti molto interessanti sul dubbio e sugli inizi ricorrenti: quindi il lavoro non è mai finito completamente e quindi, se questo lavoro non è mai completamente concluso, non devi perdere la speranza e continuare a lavorare a dei nuovi inizi, mai uguale all’inizio precedente, e tu suggerisci di usare il dubbio come strumento, di non essere troppo sicure di sé, di quello che stavi facendo, pensando, dicendo e diventando, il che è cruciale altrimenti si diventa molto dogmatiche e, quando si diventa dogmatiche, si fanno gli errori….

Penso sia difficile perché la fiducia in noi stesse per molte di noi è stata minata dal fatto che ci è stato detto cosa non possiamo fare, chi non possiamo essere… sai parte della femminilità, nel modo in cui è stata costruita storicamente, è fatta per non farti avere fiducia in te stessa, o comunque meno fiduciosa rispetto al tuo diritto a dire qualcosa, al tuo diritto a stare in un posto e a prendere spazio. Io sono stata molto consapevole nel mio lavoro e nella mia vita di come a volte questa fiducia in noi stesse è la cosa per cui stiamo lottando, nel senso di avere il diritto di essere, fare e dire le cose così come siamo, usando le nostre parole. Questa fiducia in se stesse può diventare rigidità e presunzione, e tutte sappiamo quanto è stato difficile per le storie femministe su questa questione del fatto che alcune persone affermano con sicurezza il proprio diritto a occupare lo spazio. Qualcosa per cui politicamente dovresti lottare per essere in un posto, e poi diventi quel blocco, perché significa che il posto che prendi è più escludente per altre e quindi a volte dobbiamo perdere quella fiducia in noi stesse. E’ una cosa molto difficile da dire quando so che per molte persone la fiducia in se stesse è una vera lotta: dopo aver insegnato Studi delle donne per gran parte della mia carriera accademica, so che cosa significa dare alle persone questa fiducia nel loro diritto di essere all’università persino, di leggere quei libri, di usare “Io” negli scritti, o almeno questo è quello che penso. Queste sono delle battaglie, ma cercare di fare queste cose è allo stesso tempo importante e difficile ma, da un lato, stai imparando ad acquisire il senso della tua voce, il fatto che hai una voce, che lo spazio non viene deciso da altre persone ma anche, allo stesso tempo, devi diventare consapevole che la certezza, la certezza morale nello specifico, può portarti a diventare meno consapevole, meno sensibile a coloro che arrivano nel mondo con bisogni diversi.

Hai sollevato un punto molto importante perché la fiducia in se stesse non può essere la stessa per sempre, questa fiducia deve adattarsi alle situazioni altrimenti diventa qualcosa di molto vicino al potere che non è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno, non quel tipo di potere. Quindi volevo chiederti, visto che nel tuo libro c’è un capitolo intero dedicato a quello che ti è successo all’università, di quando a un certo punto te ne sei andata e parli del diversity work che in Italia è un concetto veramente nuovo, penso che dobbiamo ancora pensarci e quindi se puoi darci qualche spunto sul tuo lavoro nei termini di lavoro di diversity e gli ostacoli che hai incontrato, così forti che te ne sei dovuta andare.

La storia dell’aver lasciato è una storia lunga, ma lasciami dire due cose sul diversity work. Nel Regno Unito, la maggior parte della mia carriera è stata nel Regno Unito, diversity work significa qualcosa di piuttosto ufficiale, per cui le università hanno ufficialmente dei professionisti e professioniste che nominano per scrivere le policy, e i piani di azione che esprimono l’impegno dell’istituzione verso l’uguaglianza e la diversity. Molto di questo lavoro ha avuto inizio a partire dai cambiamenti legislativi, per l’Equality Act da parte del governo, che richiedono alle istituzioni di avere politiche di uguaglianza e piani d’azione, e questo ha portato a questo gruppo di persone che viene nominato dalle università per fare quello che chiamo diversity work, e queste persone saranno poi nei comitati sulla diversity svilupperanno delle nuove politiche, e così via. Spesso se sei un’accademica e una persona of color in queste istituzioni molto bianche che sono le università ti viene spesso richiesto di diventare ufficialmente una delegata della diversity. Può darsi che magari non ricevi una nomina a funzionaria sulla diversity ma ti verrà chiesto di partecipare al comitato sulla diversity per scriverne le politiche. Quindi cade su alcune persone di fare il diversity work, coloro che incorporano la diversity per l’organizzazione, spesso a causa di chi non sono: non sono bianche, non sono uomini, non sono etero, non sono cis, non hanno un corpo abile, e quindi finiscono nel comitato sulla diversity. Faccio questa battuta per cui più non- hai, più sono i comitati in cui ti ritrovi. Quindi il diversity work spesso è del lavoro in più che fai che può anche diventare un peso perché diversity work è spesso lavoro amministrativo che spesso per le università ha meno valore, quindi è un modo di guardare chi fa cosa nelle università e come poi le università si strutturano nell’essere per alcune più che per altre. Una delle cose su cui pongo l’accento in quella parte del libro – e anche nel mio libro precedente On being included che è basato su interviste a delegate della diversity – è che le organizzazioni, le istituzioni possono apparire come in favore della diversity, magari anche in modo scritto, possono aver scritto una dichiarazione di impegno per black lives matter e così via ma questo non significa che non siano ambienti ostili per quelle persone che incarnano la diversity in un modo o in un altro. Quindi spesso c’è questo impegno superficiale verso l’uguaglianza e la diversity, ma non si traduce necessariamente in quello che realmente succede, quindi molte di quelle storie in Vivere una vita femminista riguardano quello scarto tra come appaiono queste cose – il dichiarare l’impegno verso l’uguaglianza, l’uguaglianza di genere, l’uguaglianza razziale – e poi quello che succede realmente nelle istituzioni, e come queste possono realmente essere degli ambienti ostili.

La storia di come ho lasciato [l’università] è in qualche modo una storia sul diversity work, ma è anche una storia rispetto al modo in cui, pensando specificamente alle molestie sessuali come problema istituzionale, quando ho iniziato a lavorare con gruppi di studenti sulle molestie sessuali, una delle cose più degne di nota è stato vedere quanto era nascosto: prima parlavamo di segreti, ma… L’istituzione non vuole ammettere che c’è un problema.

Così queste situazioni possono rendere conto di quando dicono di impegnarsi sull’uguaglianza, dicono quanto sono bravi con l’uguaglianza di genere, con l’uguaglianza sulla base della razza, con l’uguaglianza in genere ma, allo stesso tempo, possono tenere nascosto allo sguardo pubblico tutti i tipi di violenze che dimostrano che non fanno esattamente ciò che dicono per quel che riguarda i modi concreti in cui dare supporto alle persone. Così il gap tra ciò che appare e ciò che è e quello in cui cadi, e tengono segreto il problema: in pratica lo nascondono, e la diversity diventa un modo con cui lo nascondono. Noi provavamo ad avere un riconoscimento pubblico che l’università prendesse veramente sul serio le molestie sessuali come problema istituzionale, e non siamo riuscite ad avere questo riconoscimento. E penso che questo fosse uno di quei momenti di sbrocco [snap] in cui ho detto: “No, non ne posso più. Non posso farlo più”. È stato un momento in cui dare le dimissioni per protestare contro quel silenzio. 

Sono rimasti in silenzio e non mi hanno chieso: “Perché dai le dimissioni?”, così ho condiviso le ragioni delle mie dimissioni sul mio blog, e loro hanno reagito dicendo: “Non abbiamo un problema con le molestie sessuali, noi siamo un’università per l’uguaglianza”, e hanno tirato fuori i documenti sull’uguaglianza. Ho avuto bisogno di diventare la guastafeste istituzionale, come hai detto perché, quando porti fuori qualcosa che diventa pubblico ed era stato tenuto segreto, stai contraddicendo l’autorappresentazione dell’università che dice di essere brava sui temi dell’uguaglianza, della diversity, eccetera. Abbiamo un sacco di dati su come l’università ha fallito nel rispettare quell’impegno preso verso l’uguaglianza e la diversity. 

Rispetto a questo, al tuo lavoro sulla diversity, c’è un’altra formula che hai creato e che è molto di ispirazione: gli sweaty concepts, che in italiano diventa “concetti sudati”, ha molto a che fare con i corpi. I corpi sudano, non pensiamo mai ai cervelli che sudano, o alle anime che sudano, o alle menti che sudano. Hai inventato questa formula, “concetto sudato”: puoi descriverla?

Non è il modo in cui di solito si pensa ai concetti, e in parte è proprio questo il punto. Quando pensiamo a come per esempio in filosofia è di solito presentato un concetto, è che è originato dalla mente: una mela cade dal cielo, e il filosofo sviluppa il concetto, l’idea, della gravità. Il concetto è spesso rappresentato come generato da una coscienza senza corpo, un incontro uno a uno tra un uomo e il mondo. 

Quando penso al lavoro che per me è stato fonte di ispirazione, un lavoro arricchente da un punto di vista concettuale penso in particolar modo alle opere femministe nere, specialmente a quelle di Audre Lorde. Penso che quel lavoro sia profondamente concettuale, perché cerca di portarci a pensare in maniera diversa, a comprendere diversamente il mondo, facendo emergere qualcosa che non è presentato di solito alla nostra coscienza. È lavoro concettuale, ma il concetto non è astratto: è proprio nello sforzo di stare nel mondo. Quando Audre Lorde descrive alcuni degli incontri che ha, incontri che descrive in Sorella Outsider,  incontri di razzismo nella metropolitana, negli incontri viscerali che, ci dà così tante informazioni utili su come lavora il potere, su come spesso gli spazi diventino bianchi, attraverso le reazioni della gente nei confronti di una bimba nera, del suo corpo, come se il suo corpo fosse uno scarafaggio, qualcosa che porta sporcizia e malattia. Quindi la reazione a quel corpo rende quello spazio bianco, attraverso un brivido che fa accapponare la pelle. Ed è così che lei mi insegna come spesso le forme di potere funzionano attraverso il corpo in un modo che… ciò che voglio dire, è che a volte le persone guardano al lavoro di Audre Lorde non come lavoro concettuale ma come se fosse descrittivo, dicendo che è semplicemente una storia. Io voglio dire che si tratta invece di lavoro concettuale: ci insegna come un concetto sia generato proprio dal sudore, dalla fatica di essere in un corpo che è identificato come quello che causa pericolo o reca danno. Il sudore conta. Pensando al corpo, a come i corpi funzionano, a come noi stiamo nel mondo in quanto corpi, è qualcosa che conta veramente. Riguarda anche il modo in cui produciamo sapere: gran parte del sapere non è qualcosa che acquisisci ritirandoti dal mondo in uno spazio di contemplazione, ma hai del sapere perché cerchi di trovare un senso del mondo mentre ci stai dentro, nel mezzo del dramma, della situazione, della crisi. È come un gioco, è giocoso, in quanto concetto di concetti è giocoso. Questo deriva da molte filosofe femministe che ci hanno incoraggiate a pensare alle menti e ai corpi non come separati, ma assieme, che ci hanno incoraggiato anche a pensare alla dimensione corporale, alla natura emozionale di molto sapere. è un modo inconsueto di pensare ai concetti, ma in qualche modo ha una certa storia femminista. Questo è quello che penso.

Ascoltandoti, stavo pensando: forse questo sudore arriva in modo molto limpido da corpi, in modo molto lucido da corpi che non sono corpi bianchi.

Sì, di solito impariamo dalla storia della filosofia occidentale come alcune persone vengano ridotte a corpi, il corpo nero ad esempio, non-bianco, e il modo in cui… la trascendenza della natura razzializzata, o la natura di genere della trascendenza. C’è molta filosofia femminista su questo, quell’imminenza dell’essere dentro e non trascendere un dio superiore, il fatto di essere l’altra, o di essere resa l’altra. Possiamo pensare a del fantastico lavoro su questo, e penso ad esempio a Il secondo sesso. Penso che sì, che quelle che sono state ridotte a corpi, possono essere coloro che sono nel posto migliore per conoscere il modo diversamente. 

Sesso/genere. 

Sì, assieme.

Classe e razza. E ovviamente tutto il resto.

Per me ha molto a che vedere con Marx e con il materialismo storico. Ho pensato molto al lavoro, allo sforzo, al corpo che lavora, al fatto che molte libertà dipendano dal lavoro svolto da altre persone, il lavoro fisico di mantenere in vita un’esistenza, come i lavori di casa, o il lavoro di cura, o il lavoro domestico. Penso che sia un commento leggermente tangente, in qualche modo, ma mi ha fatto pensare al libro “Of woman born” in cui Adrienne Rich parla dello sforzo di essere una scrittrice perché suo figlio continua ad allontanarla dalla scrivania, come il lavoro di prendersi cura della prole, ma questo è il lavoro che deve fare mentre svolge il lavoro di scrittura. Deve continuare a lottare per avere tempo per sé. Se il sapere è generato da coloro che devono lottare per riuscire a stare alla scrivania per avere il tempo di fare quel lavoro, allora il sapere apparirebbe in modo diverso. Secondo me molto sapere è generato da persone che hanno altre persone che fanno il lavoro per loro, e così loro hanno il tempo per la contemplazione, il tempo di stare seduti alla scrivania scrivendo i libri di filosofia. Se siamo noi quelle che stanno facendo il lavoro, i lavori di casa e gli altri tipi di lavoro di cura, allora sì che i concetti diventano sudati. 

Questa è una rivoluzione copernicana, un modo veramente diverso di vedere le cose. Perché ad esempio molto spesso noi donne pensiamo che la prole sia un ostacolo: no, sì, no, sì, ma producono anche molta intelligenza. Dobbiamo pensare diversamente. Tu stavi citando Adrienne Rich: e che cosa diciamo su Grace Paley? Diceva lo stesso: era solita scrivere al tavolo della cucina, di notte, quando la prole dormiva, motivo per cui la sua scrittura aveva una sostanza. Per questo, e non al contrario. 

In ogni caso, cambiamo drasticamente argomento: a un certo punto, nel tuo libro, parli di happiness, e dai l’etimologia della parola. In italiano, happiness diventa “felicità”: abbiamo un’etimologia molto diversa, quindi vorrei che presentassi l’etimologia di happiness che è molto più interessante ed utile come strumento.

Sarebbe anche interessante sentire l’etimologia del termine in italiano, me la puoi raccontare tu. Ho scritto il libro The promise of happiness [La promessa della felicità, non tradotto in italiano] molto tempo prima di Vivere una vita femminista. È un libro che parla della storia della felicità, di come possiamo riscrivere quella storia dal punto di vista delle persone considerate dannate, miserabili. Ho raccontato la storia dell’etimologia: viene dall’inglese medio, hap, che significa chance [“caso, imprevisto”]. In qualche modo una delle domande di ricerca che ha dato forma a La promessa delle felicità riguarda il modo in cui la felicità ha perso il suo lato imprevisto. Nella cultura angloamericana, diciamo così, la felicità non riguarda tanto il caso: spesso si ritiene che sia ciò per cui devi lavorare, che ti devi guadagnare e meritare. Devi esserne degna, come se fosse una virtù e non qualcosa che ti capita. Questa era una delle definizioni di felicità della psicologia positivista: la felicità non è ciò che ti capita, è ciò che produci per te.  Anche se l’origine è il caso, l’imprevisto, il modo in cui usiamo questa parola è molto lontano da questo. Volevo quindi spiegare come la felicità avesse perso il suo imprevisto, e si trattava di una specie di progetto queer: rimettere l’imprevisto nella felicità, rendere la felicità come molto più legata all’imprevisto e alla possibilità, e meno legata al fatto di meritarsela. Ed è così che spiego come la storia della felicità sia diventata un dispositivo di raddrizzamento [NdT: in inglese straight significa sia dritto che eterosessuale, quindi il raddrizzamento significa sia andare per la strada dritta che andare per la strada eterosessuale]: ciò che ottieni vivendo la tua vita nel modo giusto e facendo le scelte giuste. Ne La promessa della felicità c’è un capitolo che si intitola Unhappy queers [Queer infelici], in cui si parla di tutte le risposte che danno genitori quando hanno figli/figlie queer: “Oh no, sarai infelice!”. Quindi i genitori non sono infelici perché la figlia è queer, ma perché la figlia queer sarà infelice. Si pensa che la felicità debba richiedere certe scelte specifiche, certe traiettorie, e quindi come modello è diventata un dispositivo di raddrizzamento. Non è solo che ha perso il suo imprevisto, ma proprio che è stata definita contro di noi. Il modo in cui la felicità condivide la sua origine con hap [imprevisto], con happenstance [evento fortuito] perhaps [forse], haphazard [a casaccio]… e io voglio riportare l’imprevisto nella felicità. Ma, per farlo, devi fare un sacco di lavoro a causa quanto questo è stato definito in contrasto con noi. 

A un certo punto hai detto qualcosa tipo: “Se questa è la felicità, ho il diritto a essere infelice”.

Altre due domande e poi ti lascio. Alla fine del libro ci sono due capitoli: uno dedicato al kit della guastafeste, un kit vero e proprio in cui nomini diversi strumenti. E il capitolo finale è quello dedicato al manifesto: abbiamo bisogno di un manifesto. Puoi descrivere il kit della guastafeste e poi spiegarci come mai pensi che i manifesti siano ancora degli utili strumenti politici? 

Sì, penso che l’ordine fosse abbastanza importante: prima il kit di sopravvivenza, e poi il manifesto. Ciò che suggerisco è che prima di iniziare ad articolare in maniera chiara e diretta un’ambizione politica, dobbiamo prima di tutto sopravvivere. Il kit deve molto a Audre Lorde in così tanti modi (40.12), ed è organizzato secondo un presupposto: per molte la sopravvivenza diventa un progetto politico. In un mondo che rende la sopravvivenza così difficile, la sopravvivenza diventa ciò che facciamo nel nostro vivere una vita femminista, e scopriamo con le altre e una dall’altra che cosa abbiamo bisogno di fare per sopravvivere. E con sopravvivenza non intendo solo il rimanere in vita: intendo mantenere vive le nostre speranze politiche, mantenere viva la nostra dedizione politica. Può essere costoso essere una femminista quando stai all’interno di un’istituzione e sei quella che lotta contro le molestie sessuali, o quando in casa quando metti in discussione il modo in cui le persone organizzano il proprio lavoro domestico. Dato che può essere costoso, dobbiamo trovare il modo per sopravvivere insieme. Questa è l’idea che sta alla base del kit di sopravvivenza. Mi piace l’idea di un kit vero, tipo una borsa, in cui metti dentro cose di cui sai di avere bisogno per mantenere vive le tue speranze, per continuare ad andare avanti con le tue speranze. In un altro libro, ho trattato il tema dell’utilità: qual è lo scopo della mia borsa? E c’è un momento in cui penso alla borsa stessa come a un contenitore di cose che ti permettono di andare avanti. Ed è così che penso anche alla memoria femminista, a ciò a cui ci aggrappiamo, ai ricordi che abbiamo, alle cose che impariamo e che ci danno una sorta di senso di uno scopo femminista. Quindi è molto interessante che il kit di sopravvivenza sia qualcosa a cui le persone hanno risposto: ci sono state molte persone che mi hanno mandato lettere, o che hanno condiviso i kit di sopravvivenza che hanno fatto come parte di una lezione sugli studi di genere, e hanno condiviso le loro borse di cose: i libri che sono piaciuti, o le foto di qualcosa che ricorda un incontro politico veramente importante a cui hanno partecipato, o cose del genere. Mi piace molto l’idea che sia così materiale, che unisca questi ricordi, questi oggetti, queste connessioni a passati alternativi, e che li teniamo con noi. Quindi ha a che fare con ciò che abbiamo bisogno di tenere con noi per continuare ad andare avanti. 

E il Manifesto… volevo davvero… mi piace molto il genere letterario del manifesto, il fatto che sembri avere a che fare con il futuro, con ciò che non siamo disposte a fare. Ho organizzato le dieci frasi che compongono il mio manifesto della guastafeste attorno alla volontà: “Non sono disposta a fare della felicità la mia causa”, e riguarda ciò che sono disposta a spezzare per non danneggiare o svalorizzare le altre. È un impegno non soltanto rispetto al futuro che vorresti, ma anche rispetto a ciò che sei disposta a costruire per realizzare quel futuro. Ma volevo anche pensare ad altri manifesti, come Manifesto S.C.U.M., perché ciò che rendono manifesto è un’affermazione di impegno e dedizione rispetto al futuro, rispetto a ciò che sei disposta a fare affinché quel futuro conti grazie a ciò che riconosci come esistente: la violenza che già esiste e che è profondamente strutturale. Il futuro non è qualcosa di lontano, laggiù, ma riguarda il presente. All’inizio hai nominato la speranza, e penso a come la speranza riguardi certamente il fatto che un altro mondo è possibile, ma descrivo anche il concentrarci su ciò che sta alle nostre spalle, riguarda la storia di coloro che hanno detto di no. La cultura femminista ha un manifesto, ed è uno, perché il guastare le feste è un segno del fatto che ciò a cui reagisci, il mondo a cui ti opponi, esiste ancora, e dobbiamo lottare proprio a causa di ciò che ancora esiste. È un modo per guardare avanti ma anche indietro, guardare al presente come eredità di tutte quelle storie. Penso che sia per questo che il manifesto per me è veramente importante: racconta ciò che sono disposta a fare considerata la storia che continua e che non è finita. 

E non è un manifesto teleologico, è un manifesto ora dal passato per il futuro. Un’ultima cosa: le guastafeste migliore che hai in mente, parlando da un punto di vista storico e politico… ad un certo punto per esempio nomini Emma Goldman e quella frase classica “Se non possiamo ballare, non è la nostra rivoluzione”. Ce ne sono altre: nomini Audre Lorde, parli molto di bell hooks… chi altra?

Interessante che nomini Emma Goldman, non conosco molto bene il suo lavoro ma penso che sia una frase molto famosa “Non mi unirò alla vostra rivoluzione se non posso ballare”, penso in verità che sia stata citata in maniera errata nella versione originale e spero sia stata corretta ma questo è solo un piccolo appunto. Ciò che penso sia interessante a questo riguardo è che uso la figura dell’aliena affettiva che è in realtà un concetto da La Promessa della Felicità ma penso sia anche in Vivere una vita femminista per cui tu sei alienata dal modo in cui vieni toccata dalle cose. Dal punto di vista della guastafeste che di solito è che non si sente felice grazie alle cose giuste ma può anche avere a che fare con la necessità di non essere tristi, di non essere tristi al momento giusto. Penso questo sia piuttosto importante, come è successo recentemente nel Regno Unito quando è morta la regina Elisabetta: c’era questo lutto obbligatorio e se non esprimevi questo lutto, questo dolore nel portargli rispetto, essendo in silenzio nel criticare la monarchia allora diventavi un’aliena affettiva, ma anche profondamente patologizzata. Quindi penso sia molto interessante quando pensiamo alle guastafeste femministe e alla storia: non è guardare a quelle che erano veramente miserabili o che non erano felici per le cose giuste, ma è soltanto che coloro che non erano disposte a sentire, parlare e agire nel modo in cui ci si aspetta che tu senta, parli e agisca… questo può essere il ballare nella rivoluzione tanto quanto l’essere tristi ma non per la monarchia ma forse essere tristi per qualcos’altro. Penso ci siano bellissimi modi diversi in cui la guastafeste emerge da un punto di vista politico, una ribellione a un ordine di esprimerti e sentire in un certo modo. Sì, Audre Lorde la nomino molto: non posso nemmeno iniziare ad esprimere quanto sia in debito nei suoi confronti per il mio lavoro. Penso una cosa importante, cioè Lorde non usa la parola guastafeste, è una parola che uso io, per me è molto importante riconoscere che la parola non proviene da quel lavoro che mi ha fortemente influenzato ma che io ho trovato qualcosa in quel lavoro che mi mette in contatto con la guastafeste, certamente c’è molto di più. Penso una cosa molto importante di Lorde è quell’essere disposta a parlare di dolore, la difficoltà non di allontanarsi da esso ma in realtà di andare proprio in quella direzione, ciò che rende difficile l’essere al mondo. E questo non viene mai a discapito di quello che lei chiama l’erotico, di un desiderio di giustizia, di amore, di relazioni, di connessioni, per un mondo migliore. Penso che questa combinazione la renda per me veramente un’ispirazione importante per la guastafeste e quando vedo i film su di lei che la mostrano mentre balla, canta e mangia c’è questa sensazione di vita, è molto positiva. E questo può sembrare molto lontano dal repertorio della guastafeste ma non penso sia così. Ho anche provato a mostrare che essere una guastafeste significa anche essere piene di gioia perché non stai seguendo i classici copioni della felicità, non stai seguendo quello che ti dicono di essere ma stai aprendo, espandendo quello che significa esserlo, e c’è qualcosa che è molto vitale in questo. Io sono cresciuta in Australia, e questo significa per me che la mia esperienza primaria nel crescere è stata in un paese colonialista, e per questo ha molto influenzato il mio lavoro il femminismo indigeno, e penso a Aileen Moreton-Robinson che ha scritto un libro in Australia che si chiama Talkin’up to the white woman, una critica del femminismo bianco australiano, che in quanto opera femminista è molto all’interno degli affetti positivi, e delle storie felici e d’amore. Lei è stata un’ispirazione guastafeste importante e io e lei abbiamo parlato insieme della figura della guastafeste femminista indigena, e cosa significa essere una guastafeste femminista indigena, e la relazione della guastafeste femminista indigena con la guastafeste femminista nera e le guastafeste femministe e così via. Ce ne sono altre che mi hanno influenzata, e prima ho nominato una femminista britannica nera, e c’è anche Gail Lewis che vive nel Regno Unito, è qualcosa del tipo… Cce ne sono tante, ci sono tante femministe lì fuori e quindi penso che tutte scriveremo il nostro kit di sopravvivenza, che ovviamente dovremmo fare e così metteremmo insieme tutte queste diverse influenze. Non che siano delle guastafeste ma la questione non è chi è o chi non è una guastafeste di preciso, è più come ci facciamo ispirare dalle femministe che sono venute prima di noi e il modo in cui portiamo avanti delle istanze politicamente e come questo può avere a che fare con la rabbia, il rifiuto del mondo com’è, ma c’è anche con la speranza, e la gioia e l’immaginare il mondo come potrebbe essere, e questo è quello che finirebbe nel nostro kit di sopravvivenza della guastafeste.

Grazie per tutto Sara.

Un piacere, mi dispiace non essere lì con voi di persona

Avremmo altre occasioni.

Solidarietà a per tutte.

[Trad. a cura di Marta D’Epifanio e Beatrice Gusmano]


Antonella Petricone, Omaggio a Liana Borghi 

Nel 2003 ho partecipato al laboratorio di mediazione culturale di Villa Fiorelli “Raccontarsi” ed ho conosciuto Liana Borghi e Clotilde Barbarulli, organizzatrici ed ideatrici del laboratorio. Un laboratorio ideato dalla società italiana delle letterate, dal giardino dei ciliegi di Firenze e dall’università di Firenze.

Il mio primo contatto con Liana è avvenuto attraverso l’iscrizione al laboratorio, avevo vinto una borsa di studio e Liana mi aveva dato come compito quello di scrivere una mia autobiografia.

Non ero ancora molto avvezza alla scrittura autobiografica, non sapevo che quel primo incontro con me stessa avrebbe aperto un orizzonte nuovo e straricco di intersezioni che avrebbe sconvolto positivamente la mia vita e la mia pratica politica. Quel compito mi terrorizzava, ancora più l’aspettativa che Liana riponeva nel chiedermi, fin da subito, di soddisfare una richiesta che avrebbe riempito lo spazio tra me e lei. Da quella fatidica estate tante altre ne sarebbero seguite e tutte segnata da quell’amore e da quella cura appassionata con cui ci chiedeva di “esserci”, riempirlo davvero lo spazio. Uno spazio che ha assunto da subito le sembianze di uno stregatto e che ha segnato la relazione tra Liana e noi acrobate, il collettivo politico affettivo nato da quella prima esperienza. 

Lo stregatto, il sorriso inquietante e affascinante di qualcosa che va e viene, le intermittenze che ho imparato a collocare nel mio agire quotidiano, la capacità di essere dentro e fuori e di fare dello spaesamento un osservatorio privilegiato di analisi e di scoperta. 

Quello stregatto che nel ragionamento di Liana, mi ha insegnato a guardare da un margine che si sceglie e si privilegia, a vedere le proprie dicotomie e scioglierne le rigidità. Vuole dire aprirsi all’altra/o da sé e farne un’esperienza performativa.

Dentro questa affettività performante, che è diventata la cifra della complessità appresa da Liana e da Clotilde, ho imparato a ri/conoscermi in modo più autentico, a sentire di far parte di una storia politica che sarebbe durata anni e che ha portato alle radici della scuola estiva di Befree (a Liana e Clotilde devo questo immenso regalo che mi ha portata ad organizzare quest’estate la dodicesima edizione di una scuola che non sarebbe mai nata senza di loro). 

Da sempre la figurazione dello stregatto, scoperta grazie a Liana, ha segnato il mio nuovo luogo di appartenenza. Il suo sorriso, lo spazio che apre alle sue molteplici possibilità, è il sorriso che me la ricorda, ed è attraverso quel sorriso che le rendo omaggio nel mio piccolo contributo al libro in sua memoria ma anche qui, con voi. 


Marco Pustianaz “Eredità, trasmissione, memoria. Lavorare con Liana senza Liana”

Ho scelto di evocare nel titolo tre termini tra loro collegati che, nell’apparente semplicità del loro significato quotidiano, hanno tuttavia la capacità di interrogare profondamente il motivo che ci ha riunite qui. Interrogandomi sulla paradossale contiguità di presenza e di assenza (con Liana, senza Liana) spero di poter suggerire un modo per abitare attivamente il nuovo spazio in cui Liana ci ha lasciato – uno spazio improvvisamente vuoto, eppure così pieno. In effetti, il legame paradossale che ci unisce nel luogo che le era caro, il Giardino dei Ciliegi, è costituito non solo dal fatto di essere rimaste senza Liana, ma di sentirne letteralmente la mancanza. Così, la sua assenza si fa sensibilmente presente, nello stesso momento in cui la sua presenza è acutamente assente. Come abitare in questo chiasmo senza essere ridotti al silenzio e all’impotenza?

Credo che la strada per farlo sia quella di mettere a frutto sia la continuità della presenza sia la discontinuità dell’assenza, e farlo integralmente: da un lato, riconoscendo quella contiguità di assenza e presenza nella vita che abbiamo parzialmente condiviso con Liana (una vita che ci pare adesso appartenere solo al “passato”), dall’altro, riconoscendola nella vita che non possiamo più condividere con lei (una mancanza che ci pare definire il nostro “presente”). Vorrei suggerire come l’operazione della memoria permetta di connettere queste dimensioni violentemente opposte, riconoscendo l’ombra dell’una nell’altra. Non credo sia puramente questione di “elaborare il lutto”: piuttosto quella di riconoscere nel lutto una particolare modalità utile a riattivare, persino di fronte alla morte, quella temporalità aggrovigliata che è parte integrante della vita (umana?). Il lutto è risorsa vitale. È proprio la nostra posizione di superstiti – la posizione che non si sceglie – a richiederci un’adesione convinta alla costruzione di una temporalità plurima, in cui Liana possa essere sia presente che assente: una temporalità all’insegna dell’asincronia. Non è forse l’asincronia quella che può permettere di lavorare con e senza, ignorando la necessità tirannica di una sincronizzazione a tutti i costi, di un allineamento senza faglie, senza cesure, senza ritardi? Senza l’asincronia, quale speranza avremmo di pensare varchi temporali e di sentirli, all’opera sia dentro il presente che tra il presente e il passato?

Ma prima vorrei dire qualcosa sull’eredità e sulla trasmissione, sulla loro seduzione e sui loro limiti. In particolare, dirò qualcosa sui limiti di una logica ereditaria e genealogica, proponendo di modificarla proprio a partire dalla difficoltà di nominare l’eredità di Liana. Tale logica riguarda sia la relazione interpersonale – in questo caso, il possibile significato del riconoscersi “eredi di Liana” – sia la relazione storica tra generazioni. L’intreccio tra queste due dimensioni è assai complicato, così come è complicata l’identificazione tra la singolarità di un percorso soggettivo e l’esperienza di “una generazione”. Il fatto che il femminismo (soprattutto bianco) sia stato spesso temporalizzato secondo una logica di successive “ondate” non rende meno problematica la reificazione di un’eredità generazionale. Eppure è difficile non cedere alla seduzione di una naturalità nel rapporto di eredità e di trasmissione tra una generazione e l’altra, soprattutto quando si tratta di generazioni di movimento con la loro particolare eredità collettiva, materiale e immateriale, fatta di pratiche, linguaggio e relazioni. 

A differenza di Liana, nata nel 1940, io appartengo alla prima generazione che non ha “fatto” il Sessantotto, e a malapena il Settantasette. Forse per questo motivo, la mia alleanza con Liana mi sembrava ricadesse naturalmente nella logica di un’eredità generazionale, come se la generazione che veniva dopo dovesse essere la naturale erede di quella precedente. Per lungo tempo ho identificato in Liana (e in Paola di Cori, la storica femminista mancata nel 2017) una sorta di madre surrogata femminista. Non riuscivo a non pensare in termini di eredità! Analogamente, ero portato a leggere la mia relazione con loro in termini di debito (e quindi anche di credito), mentre oggi sono sicuro che né Liana né Paola fossero interessate a relazionarsi con un discendente, né tanto meno con un figlio adottivo o un allievo; in altre parole, non desideravano certo un erede. Credo invece che, proprio riconoscendo il disallineamento tra le nostre generazioni, desiderassero il piacere di aver trovato un “con-temporaneo”: un compagno con cui produrre insieme un tempo comune intessuto di asincronia. 

Essere contemporanei è più impegnativo che non essere eredi, poiché la responsabilità dell’erede non trova riscontro nella libertà dell’essere contemporanei l’uno per l’altra. Il discorso seducente dell’eredità e della discendenza genealogica o generazionale si rende facilmente complice di una narrazione che impedisce di fatto a soggetti disallineati o addirittura divisi da cesure o traumi storici di condividere la cosa più preziosa che si ritrovano ad avere: la rispettiva asincronia. Solo condividendo l’asincronia tali soggetti possono diventare contemporanei e produrre in questo modo uno spazio/tempo comune. Quest’ultimo non è altro che il “presente”, composto da tutte le temporalità asincrone che lo incrociano. Il presente, infatti, è un’intersezione, lo spazio/tempo del potenziale incontro fra temporalità multiple e sovrapposte, impossibili da definire in termini di eredità lineare. Il presente è lo spazio/tempo multiplo in cui sperimentare la possibilità di essere contemporanei. Non ha a che fare con l’astrazione della teoria ma con la pratica del “fare tempo insieme”.

Non intendo disconoscere gli ambiti etico-giuridici nei quali porre la questione dell’eredità può essere importante e persino inevitabile. Da una parte ci sono questioni di trasmissione materiale, che riguardano il “patrimonio” intorno a cui l’erede o gli eredi definiscono la loro azione. L’eredità è sempre anche questione di proprietà, poiché si eredita quello che è stato accumulato e che è legato al nome di chi è mancata. Ma non meno importanti sono le questioni di patrimonio immateriale. Come identificare tale eredità? Apparteneva a un singolo individuo? Può essere trasmessa? Cosa vuol dire ereditare un patrimonio intangibile e indefinibile come può essere un pensiero, un modo di essere e di vedere il mondo, una progettualità, un lavoro di relazione? Nel caso poi di Liana, per la quale il femminismo era un cantiere continuamente aperto e il suo lavoro sempre inconcluso e aperto al futuro, appare ancor più arduo identificare qualcosa di preciso rispetto a cui raccogliere un’eredità. Forse il problema è che pensare in termini di eredità invita alla costruzione retrospettiva di una linea di discendenza secondo la logica della genealogia e della generazione. In questa prospettiva chi viene prima lascerebbe il posto a chi viene dopo: un avvicendamento ordinato che permette all’erede di sostituirsi al defunto in quanto proprietario responsabile di un lascito. Il posto lasciato vacante è virtualmente occupato da tutto ciò che il defunto ha “lasciato”. Ma nel caso di un lascito indefinito come il femminismo di Liana, che cos’è che un’erede dovrebbe riconoscere come sua responsabilità di cura? E una volta riconosciuta la natura di questa eredità, come dovrebbe conservarla?

Questo lascito – è chiaro – non può essere identificato in nessun modo come un qualcosa di posseduto. L’erede in questo caso sembra ereditare piuttosto un modo di abitare il mondo. Anzi, nella misura in cui un modo di stare al mondo equivale tout court a un “fare mondo”, l’erede sarebbe debitore di un’eredità persino spropositata: nulla di meno che un mondo intero. Che questo sia il vero significato di un’eredità femminista lo conferma il titolo dell’ultimo libro su cui Liana ha lavorato insieme con me e con le traduttrici prima di lasciarci: Vivere una vita femminista di Sara Ahmed – un libro che letto da superstiti è quasi inevitabile interpretare come un testamento di Liana per interposta persona. Vivere una vita femminista significa costruire un mondo abitato secondo una prospettiva femminista, un mondo che nella sua fragilità sembra reclamare di essere ereditato da qualcuna, pena la sua dimenticanza e sparizione. Ereditare quel mondo vorrebbe dire innanzi tutto prendersene cura, desiderare che non venga meno. Per tutte queste ragioni sottrarsi a una tale eredità non è sostenibile, se non vogliamo che tutto collassi dietro le spalle di chi ci ha lasciato. Ma perché mai tale collasso ci appare insostenibile? L’unica risposta possibile è se l’erede fa già parte del mondo che ora dovrebbe ereditare. Paradossalmente, ereditando l’erede eredita anche, o soprattutto, se stessa, nel momento in cui riconosce parti di sé in quel mondo che, apparentemente, le è stato lasciato. 

La consapevolezza che dichiararsi erede di qualcuna (del “suo mondo”) significhi innanzi tutto ereditare se stessi – fare memoria di sé in quanto legate ad altre vite – è capace di cambiare totalmente segno a un concetto tradizionale di eredità dove prevale invece la nozione di debito, di riconoscimento, di discendenza verticale. L’eredità potrebbe essere ripensata senza il vincolo patrimoniale della trasmissione e della conservazione, senza nozioni di proprietà e possesso, in un’ottica non di dovere, ma di libertà. Non si è eredi: si sceglie di esserlo, lo si desidera. Del resto, in una breve nota che avevo scritto parecchio tempo fa in risposta a Paola Di Cori su come fare storia del femminismo per trasmetterlo alle generazioni future riflettevo come ci scontrassimo con un nodo impossibile da aggirare: il femminismo come modo di abitare il mondo non può essere trasmesso come un messaggio che si consegna a qualcuna, così come una vita femminista non è un oggetto prezioso che si possa conservare da parte di un erede. È impossibile ereditare un mondo o una vita se non si è già parte di quel mondo o di quella vita. Dichiararsi eredi, appunto, indica performativamente l’impossibilità di separare in due temporalità distinte il mondo che esisteva prima di averlo ereditato (il “passato” dove era viva Liana) da quello che possiamo dire di avere ereditato soltanto perché Liana non c’è più. I due mondi sono impossibili da separare perché il nostro coinvolgimento come eredi testimonia come la relazione con Liana abbia creato un legame di contemporaneità che non possiamo più districare. Tale legame non appartiene affatto al passato, ma si rigenera nel presente della memoria. Se ci dichiariamo eredi di Liana non è per un qualche vincolo esteriore di successione, ma per un vincolo transitivo di contemporaneità capace di tradurre l’asincronia del presente che condividevamo con Liana nell’asincronia di un presente che apparentemente non condividiamo più con lei. La traducibilità di questa asincronia apre il varco temporale che altrimenti ci dividerebbe per sempre. In questo senso rinnovato, dichiararsi eredi (diversamente dall’essere nominati eredi) non significa altro se non fare memoria di una contemporaneità inconclusa tra noi e lei. Come ho cercato di suggerire, in questo contesto fare memoria di sé è indistricabile dal fare memoria di Liana. Del resto, in quanto eredi di un “mondo”, la memoria non potrebbe limitarsi selettivamente a Liana, ma tira con sé un groviglio di relazioni, luoghi, altre persone, conversazioni, ambienti, atmosfere. Fare memoria significare connettere e riconnettere assemblaggi affettivi. Non si ricorda una persona, ma delle circostanze.

***

Gli assemblaggi temporali che caratterizzano la contiguità asincrona sono tipici della memoria, di quella particolare forma di (ri)costruzione temporale data dal processo di fare (o archiviare) memoria. Nella memoria, come sappiamo, passato e presente si archiviano a vicenda. Per questo l’archivio della memoria si ribella alla costruzione tradizionale del discorso storico, nella misura in cui l’archivio affettivo fatica a separare il passato dal presente, poiché nella memoria le due dimensioni diventano a tutti gli effetti contigue. Come il passato, sebbene assente, non è passato, così il presente non si lascia definire come tempo unico limitato alla propria presenza, ma al contrario è caratterizzato dalla capacità di estendersi in una durata variabile, abitabile da soggetti asincroni. Se il presente fosse puramente istantaneo, senza ritardi e senza asincronie, sarebbe probabilmente inabitabile. Attraverso la memoria, invece, il presente acquista una dimensione spaziale abitabile. Il presente còlto attraverso l’operazione della memoria ospita anche chi non appartiene (o si presume che non appartenga) a una medesima temporalità. Caratteristica del presente non è infatti la sua sincronizzazione, ma, al contrario, la possibilità di ospitare l’asincronia, affinché soggetti “impropri” (non sincronizzati) possano condividere uno spazio/tempo che potrebbero definire “comune”, secondo una finzione politica condivisa.

L’accento sull’asincronia della memoria è prezioso perché permette di aprire varchi tra temporalità multiple anche quando tali varchi non sembrino più praticabili: ad esempio quando la perdita di una persona amata sembrerebbe dimostrare una cesura inarrestabile tra un presente che è solo presenza e un passato che è pura assenza, quando invece queste modalità di esistenza temporali sono intimamente contigue. Tale operazione di instancabile connessione temporale avviene sia in ogni istante del presente, sia in ogni consapevole ricostruzione della nostra relazione con un passato archiviato come tale. Il presente fa continuamente memoria di sé, e non solo del passato: esso è interessato alla loro reciproca conversione e traducibilità. Sebbene il nostro rapporto con il presente e con il passato appaiano come due modalità distinte, in realtà non lo sono affatto, nel momento in cui ogni “momento dell’essere” archivia se stesso come futuro oggetto memoriale. Perciò fare memoria non è un’operazione storica, ma contraddistingue la capacità stessa di fare mondo nel presente. Il suo lavoro può essere definito come la composizione e ricomposizione di un archivio affettivo.

Collego strettamente memoria e affetto perché sono intra-agenti. Risultato della loro reciproca relazione è l’archiviazione, vale a dire quel singolare moto o impulso che definisce la memoria come eccedente rispetto a ogni misura di conservazione e trasmissione. Si fa memoria quando la conservazione dell’oggetto non è più possibile: così, la memoria entra in gioco quando un oggetto amato è assente, poiché la sua mancanza instaura la cesura necessaria a scatenare il moto di un affetto. Se non tutti gli affetti sono generati dalla percezione di una perdita, ogni perdita genera un affetto, nella misura in cui la perdita dell’oggetto sopravvive all’oggetto stesso. L’affetto propelle la memoria e ne diventa al tempo stesso l’oggetto. Si può dire in effetti che non abbiamo memoria dell’oggetto ma dell’affetto legato a esso. L’oggetto perduto è ricordato attraverso l’affetto che ne fa le veci e che testimonia non solo la sua assenza, ma anche la sua sopravvivenza. Così la presenza dell’affetto si nutre dell’assenza dell’oggetto. Con Liana, senza Liana. Affetto Liana, effetto Liana. La contiguità necessaria di presenza e assenza che è caratteristica del fare memoria non può essere tacciata di semplice malinconia, una “passione triste”. La memoria archiviante non è né triste né felice. Del resto, l’oggetto che chiamiamo assente non è solo quello il cui possesso abbiamo perduto, ma anche quello desiderato in eccesso, e quindi mai posseduto. E che cos’è (stato) il femminismo, se non questo eccesso di desiderio?

Lo stretto rapporto affettivo tra memoria e perdita, riconoscibile nell’affermazione di un eccesso di desiderio, mi sembra di ritrovarlo nello scritto di Liana intitolato “Era il nostro mondo comune”. Anche se il tempo imperfetto sembra designare la malinconia della perdita, esso è ben lungi dal dichiarare la vittoria della nostalgia, poiché serve a riattivare la memoria bruciante di un desiderio il cui nome è “mondo comune”. Archiviandolo al tempo passato Liana fa memoria di quel femminismo senza che quel femminismo esista più. Tuttavia, nel fare memoria di un mondo comune di cui sembra registrare la perdita Liana è capace di trasformarlo nuovamente, affinché l’affetto che da esso si sprigiona possa renderlo “comune” per noi soggetti asincroni, che pur non avendo mai potuto desiderare quel mondo allora, possiamo desiderarlo ora anche senza poterlo realizzare. Asincronia del femminismo: un modo per ravvivare il desiderio di un mondo comune, sebbene non più di quel mondo comune, e non con le persone con cui lo si potrebbe condividere. Come ci ricorda Liana, non si perdono solo le persone amate, ma anche i mondi amati, quelli che la memoria ci fa nuovamente chiamare “comuni”. Forse sono comuni perché sono capaci di trasmettersi come affetto, senza più l’oggetto che l’aveva scatenato. Dei mondi si perdono quotidianamente e nessuno se ne accorge, se non chi li perde. Ma Liana se ne accorge. Liana sa che possiamo perdere non solo gli oggetti un tempo posseduti, ma ancora più gli oggetti del desiderio che non abbiamo mai posseduto, e che abbiamo desiderato tanto più fortemente quanto più oltrepassavano la capacità di essere posseduti in un qui e ora. Credo che Liana riconoscesse in questa eccedenza il significato più profondo dell’utopia.

A me – che appartenevo di più alla generazione (post)-punk del No Future e a cui la parola “utopia” sapeva troppo di promesse future – a me colpiva la capacità della memoria di incarnarsi in un archivio affettivo, tale da mantenere dell’oggetto perduto (la rivoluzione femminista?) la sua traccia di virtualità residua, vitale e trasformatrice: l’impulso di un affetto che sopravvive all’oggetto. Fare memoria significa continuare a produrre quell’oggetto, senza più la speranza di poterlo recuperare, senza il desiderio di una restituzione. In questo senso, la memoria, a differenza del ricordo, non è affatto rivolta al passato e non è interessata a perpetuare o conservare il proprio oggetto. La memoria sa che può goderne soltanto deformandone lo spazio asincrono, solo ripetendone l’impulso desiderante. Tale ripetizione potrà forgiare a sua volta un altro mondo comune, e lo farà con la forza di un affetto la cui fonte non è più presente. Un altro mondo comune non potrà che essere un altro assemblaggio asincrono, un altro affetto di contemporaneità desiderante. Così mi sembra abbia fatto Liana più volte nella sua vita, perdendo mondi alle sue spalle, eppure sempre “ricordando in avanti”.

Ecco, forse, un modo per abitare, in modo imperfetto e non risolutivo, il paradosso della compresenza di assenza e presenza da cui sono partito. In quanto superstiti siamo in grado di percepire tangibilmente questa sensazione di vuoto e di pieno, un eccesso che caratterizza la nostra sopravvivenza (letteralmente, un eccesso di vita, o una vita in eccesso rispetto ad altre vite). Accogliendone il paradosso, potremmo, come spero, mantenere viva la nostra capacità di rispondere a una Liana che c’è e non c’è (come lo Stregatto), e continuare a farlo senza il beneficio di una sua risposta. Nel presente asincrono della memoria chi potrà mai dire chi tra noi e Liana domanda o risponde? Saremo con lei per sempre asincrone, e tuttavia, chissà per quanto ancora, responsabili (“capaci di risposta”) le une con l’altra, come direbbe la sua amata Haraway: a distanza di tempo, magari di lunghissimo tempo, quando non ci accorgeremo più di stare rispondendo proprio a lei. Impercettibile, forse, Liana sarà come un quanto di materia sensibile e discorsiva vibrante in una porzione dell’universo. Credo che l’idea non le dispiacerebbe.


 Al Convegno “Diffrattivamente, con amore. Per condividere ancora le eredità plurali di Liana Borghi” partecipano: 

Elena Biagini 

militante lesbica (in particolare in Azione gay e lesbica e Facciamo Breccia), insegnante, ricercatrice indipendente, laureata in Lettere a Firenze con una tesi in glottologia, ha conseguito il dottorato di ricerca in Studi di Genere alla Sapienza di Roma con una tesi di storia. Nel 2018 ha pubblicato L’emersione imprevista. Il movimento delle lesbiche in Italia negli anni ’70 e ’80, nel 2019 ha scritto l’introduzione alla nuova edizione del testo di M. Spolato, I movimenti omosessuali di liberazione. Ha pubblicato diversi articoli tra cui «R/esistenze. Giovani lesbiche nell’Italia di Mussolini» in Fuori della norma. Storie lesbiche nell’Italia della prima metà del Novecento, a cura di L. Passerini e N. Milletti, 2007, «Family Problems: Debates over Coupling, Marriage, and Family within the Italian Lesbian Community, 1990s» in Zapruder World, 2015, Family Problems: Debates over Coupling, Marriage, and Family within the Italian Lesbian Community, 1990s – Zapruder World; «Gay is healthy! La lotta contro la patologizzazione del movimento omosessuale negli anni ‘70» in Storia e problemi contemporanei, 2016; «Sottosotto: contraddizioni manifeste. La critica lesbofemminista al pensiero della differenza»in Diacronie, 47, 2021, 6/ “Sottosotto”: contraddizioni manifeste. La critica lesbofemminista al pensiero della differenza – Diacronie (studistorici.com).

Giada Bonu

Sarda ma trapiantata in Continente, è attivista femminista, parte dell’assemblea di Non Una di Meno – Firenze, della redazione della rivista femminista DWF dal 2016 e del gruppo di ricerca Filosofia de Logu sugli approcci postcoloniali allo studio della Sardegna. Dopo il Master in Studi e Politiche di Genere ha conseguito il dottorato presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociologia della Scuola Normale Superiore ed è parte del Centro di ricerca sui movimenti sociali (COSMOS). Attualmente è assegnista di ricerca presso la Scuola Normale Superiore nel progetto Horizon2020 FIERCE – Feminist Movements Revitilizing Democracies. Le sue ricerche si focalizzano sulla relazione tra movimenti femministi e spazio urbano con particolare attenzione alle metodologie partecipative.

Dal 2021 è inoltre parte del consiglio scientifico della sezione Studi di Genere di AIS (Associazione Italiana Sociologia) e dirige, insieme a Nicolò Bertuzzi e Jacopo Custodi, la collana “Il cantiere delle idee” per Castelvecchi editore.

Elena Bougleux

 è professoressa associata di Antropologia culturale, Antropologia dell’Asia, Anthropology of Complex Societies. Coordina il curriculum di Storia Filosofia Antropologia del dottorato in Studi Umanistici Transculturali dell’Università di Bergamo. Ricerca in modo trasversale tra le scienze naturali e quelle sociali perché di fatto sono le stesse scienze. La ricerca di percorsi tra le epistemologie, le figurazioni, i metodi e le metafore del pensiero e delle pratiche informano tutto suo lavoro e i suoi progetti collaborativi, a cominciare da Raccontars(si). Per questo partecipa dal 2014 all’Anthropocene Curriculm Project (MPI for the History of Science and Haus der Kulturen der Welt KW Berlin). Il suo tema preferito in questo momento è l’acqua, perché le tracce disegnate dell’acqua sul terreno assomigliano alle vene che attraversano il corpo. Ha svolto ricerche etnografiche intorno ai fiumi Cauvery (Banagalore 2009-2015), Chao Phraya (Bangkok (2017-2019), Rio de la Plata (Buenos Aires 2019, in corso) e Danubio (molte città che non si parlano 2021, in corso). Ha pubblicato le monografie Costruzioni dello Spaziotempo (2007), Soggetti egemoni e Saperi subalterni (2012), Antropologia nella Corporation (2016), e curato i volumi Percorsi creativi e Compresenze Immaginarie (con Raffaella Trigona, 2009) e Managing Global Social Water (con Nadia Breda, 2017), oltre varie decine di articoli e molti capitoli di libri gentilmente ospitati da volumi di collegh*.

Elisa Coco 

è tra le fondatrici di Comunicattive, agenzia di comunicazione che si occupa di comunicazione in ottica di genere. Dal 2003 ha frequentato la scuola estiva su Genere e Intercultura “Raccontarsi”, continuando negli anni a collaborare con Il Giardino dei Ciliegi di Firenze e la Società delle Letterate all’interno del gruppo politico affettivo delle Acrobate. Fa parte della staff del campo lesbico di Agape e della rete di educazione al genere Attraverso lo specchio di Bologna. E’ presidente dell’associazione Luki Massa che organizza il festival di cinema lesbico Some Prefer Cake.

Liliana Ellena

 storica e femminista, ha insegnato Storia delle donne e di genere all’Università di Torino ed è stata ricercatrice associata all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole. E’ stata tra le fondatrici di StorieinMovimento e della rivista Zapruder. I suoi interessi di ricerca si situano all’intersezione tra studi di genere e studi postcoloniali.  Ha curato la nuova edizione italiana di Frantz Fanon, I dannati della terra (Einaudi, 2007) e con Elena Petricola Donne di mondo. Percorsi transnazionali dei femminismi, («Zapruder», n. 13/2007). Ha pubblicato numerosi saggi sulla storia e la memoria dei movimenti femministi tra cui Carla Lonzi e il neofemminismo radicale degli anni 70: disfare la cultura, disfare la politica (in Carla Lonzi: la duplice radicalità, 2011) Frontiere della liberazione e snazionalizzazione delle italiane (in Di generazione in generazione. Le Italiane dall’Unità a oggi, Viella, 2014), I corpi come archivio politico: leggere Paul B. Preciado in Italia (Leussein, 2016).

La passione per la memoria e gli archivi divergenti del presente

In questo intervento vorrei partire dalle riflessioni di Liana sulle “intramature di lesbismo e femminismo” come terreno di una pratica che riattiva le relazioni  creative tra memoria e rivolta. In particolare i gesti che emergono dietro le storie del lesbofemminismo, del femminismo lesbico o del lesboqueer che ci ha raccontato, indicano nel ‘fare storia’ uno spazio incarnato e relazionale, attraverso cui prende forma un’operazione critica che usa il passato per sovvertire le certezze del presente.

In questa prospettiva quali dialoghi imprevisti possono materializzarsi da una pratica diffrattiva della memoria? Se questa domanda è uno dei ‘lasciti’ di Liana è perché mi chiama a un coinvolgimento situato con l’archivio come spazio di apparizione di una “storia potenziale”, come ci suggerisce Ariella Azoulay.

Monica Farnetti 

insegna Letteratura italiana all’Università di Sassari. Socia dall’origine della Società Italiana delle Letterate, è assidua frequentatrice della scrittura delle donne, cui ha dedicato numerose monografie (fra le quali Il centro della cattedrale, Tre Lune 2002;  Tutte signore di mio gusto, La Tartaruga 2008; Sorelle, Carocci 2022). Editrice delle opere di Cristina Campo e di Anna Maria Ortese per Adelphi, e di Lettera aperta di Goliarda Sapienza per Einaudi, ha pubblicato studi su autori e autrici antichi e moderni ed edizioni di rimatrici (Gaspara Stampa) ed epistolografe (Maria Savorgnan) del Rinascimento.

“Trasposizioni” 

è parola con la quale indico gli effetti prodotti da Liana nelle comunità discorsive e affettive alle quali lei ha aderito, effetti dei quali io stessa sono stata diretta e meravigliata testimone.

Impiegherò il termine tanto in senso stretto e letterale (e braidottiano) quanto in senso lato e metaforico, mirando a rendere conto delle diverse manifestazioni dell'”effetto Borghi” nelle reti di relazioni e di saperi di cui lei è stata, oltre che partecipe, iniziatrice e custode. 

  Elvira Federici 

è nata e vive a Viterbo.  Laureata in filosofia a La Sapienza,  ha approfondito gli studi di filosofia del linguaggio, estetica e letteratura in chiave di genere. Ha insegnato ed è stata  dirigente 

scolastica,occupandosi  ininterrottamente di formazione dei docenti  in scuole, associazioni, università: cultrice della materia/ docente a contratto per Letteratura Italiana e Linguistica all’ Università della Tuscia. Ha scritto manuali di educazione linguistica e letteraria per la scuola (B. Mondadori,1985; Mursia 2004). In Brasile per il MAE, ha lavorato alla formazione degli insegnanti e alla promozione della lingua  italiana. Ha pubblicato interventi su varie su riviste e pubblicazioni e in atti di convegni internazionali. Fa parte del collettivo di redazione di Leggendaria, collabora con Letterate Magazine. Femminista,  promuove  in  istituzioni come scuole e biblioteche pubbliche, oltre che nelle assocazioni, interventi relativi alla poesia, alla letteratura e  al pensiero  e alle pratiche dei femminismi. 

E’ presidente della Società Italiana delle Letterate dal 2020 –  attualmente è al secondo mandato.

 

Federica Frabetti 

è Principal Lecturer in Media and Cultural Studies all’Università di Roehampton. Si occupa di studi culturali, media e tecnologie digitali e studi di genere. E’ autrice di Software Theory (Rowman & Littlefield, 2015) e curatrice di Judith Halberstam, Maschilità Senza Uomini (ETS, 2010).

“Affetti, tecnologie, performatività: Gli attraversamenti disciplinari di Liana Borghi”

Il mio intervento si concentra su quella che ritengo essere una delle più importanti eredità di Liana Borghi: la sua capacità di reintrodurre teorie trasversali nei più disparati campi del sapere e di attraversare i confini disciplinari con rigore ma anche in piena libertà, decostruendoli e mantenendoli aperti. In particolare, indago la messa in dialogo di pensiero queer, femminismo, tecnologie e affetti operata da Borghi nella sua scrittura e la sua capacità di parlare a campi del sapere che spaziano dagli studi letterari agli studi culturali, dalla riflessione su scienza e tecnologia alla teoria dei media. Esamino poi l’importanza del lavoro di Borghi in un presente in cui le teorie femministe e queer (come il neomaterialismo femminista di Karen Barad o la teoria della performatività del genere di Judith Butler) stanno raggiungendo una nuova visibilità nel campo degli studi culturali e sociali delle tecnologie digitali. Penso ad esempio ai recenti studi sull’etica dell’Intelligenza Artificiale proposti da Louise Amoore e al lavoro di scienziate, artiste e attiviste nere come Timnit Gebru e Joy Buolamwini. Infine mi interrogo su come raccogliere e portare avanti questo aspetto dell’eredità di Liana in contesti accademici ed extra-accademici italiani e internazionali.

Gaia Giuliani 

è filosofa politica, esperta in studi culturali, postcoloniali e studi critici della razza e di genere, e ricercatrice permanente presso il Centro di Studi Sociali dell’Università di Coimbra, Portogallo. Si occupa della decostruzione di discorsi e iconografie intersezionali che materializzano il mostruoso nel contesto della modernità coloniale e postcoloniale. 

Nel corso della propria carriera ha lavorato con le Università di Bologna, University of Technology Sydney (Australia) e Cambridge (UK), collaborando altresì con le Università di Padova, Milano Bicocca e Accademia di Brera, Fordham, Leeds, London (Birkbeck and Goldsmiths), e Ca’ Foscari. È In Italia, ha conseguito nel 2018 il titolo di Professore associato (ASN) in Filosofia politica. Dal 2020 è nel Management Committee della COST Action “Decolonising Development” a cui partecipano 27 paesi. È, infine, membro del comitato scientifico delle riviste internazionali Borderscapes, From the European South e Studi Culturali. 

Tra le sue monografie Race, Nation, and Gender in Modern Italy. Intersectional Representations in Visual Culture (Palgrave Macmillan, 2019) [Finalista nel 2019 al Edinburgh Gadda Prize], Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani con Cristina Lombardi-Diop (Le Monnier/Mondadori Education, 2013) [Primo premio nel 2014 per la categoria XX e XXI secolo del concorso bandito dall’American Association for Italian Studies], Beyond Curiosity (Aracne, 2008), Zombie, alieni e mutanti. le paure dall’11 settembre a oggi (Le Monnier/Mondadori Education, 2016) e, per ultimo, Monsters, Catastrophes and the Anthropocene. A Postcolonial Critique (Routledge, 2021). 

Samuele Grassi 

è Lecturer part-time in Italian Studies al Monash University Prato Centre e docente all’Università di Firenze, dove insegna Laboratori di Lingua e inglese e di Cultura digitale per studi linguistico-letterari. Dal 2010, la sua attività di ricerca in inglese e in italiano si concentra si concentra sulle letterature di lingua inglese d’ambito contemporaneo, sulla linguistica inglese e italiana, sessualità e educazione alla cittadinanza, attivismo e performance, e sugli scambi culturali ed educativi (tra cui prospettive comparatistiche su cinema, cultura popolare e campagne mediatiche). Del 2013 Anarchismo queer, ETS.Di recente, con Nina Ferrante ha curato la traduzione italiana di Cruising Utopia. L’altrove e l’allora della futurità queer, di José Esteban Muñoz (NERO, 2022) e, con Cirus Rinaldi, di Outsiders sessuali. Le forme collettive della devianza sessuale, di John H. Gagnon e William Simon (Novalogos, 2019). Sta lavorando a un nuovo progetto all’incrocio di studi queer su genere e sessualità, educazione alla cittadinanza, performance e studi letterari e culturali contemporanei nel mondo anglofono.

“Utopie (im)possibili”

In questo intervento riprendo il desiderio di utopie (im)possibili per sopravvivere nuovamente sia alla perdita (e perché no, un lutto) tanto quanto a quello che José E. Muñoz definisce “il pantano del presente”. Per farlo cercherò di seguire-perdendo Liana attraverso una lettura diffrattiva di alcuni suoi testi: un ricordo sulla storia del Giardino, un saggio sul dominio, e un breve scritto sull’anarchia, incrociandoli, sovrapponendoli e ri-leggendoli attraverso la lente del nostro desiderio di raccogliere una o più tracce delle sue eredità plurali. Una possibile mappa del passato-presente-futuro da condividere all’incrocio di testi, pratiche, politiche, pedagogie, relazioni – con amore.

Pamela Marelli

 sono un’attivista transfemminista di Non una di meno Brescia.

Mi sono laureata in storia con una tesi sul movimento femminista bresciano degli anni ‘70. Per anni mi sono occupata di migrazione e intercultura, sia per lavoro (per un decennio sono stata operatrice di uffici per persone straniere) che per impegno politico (in un’associazione antirazzista). Oggi lavoro come bibliotecaria.

Ho curato l’editing del libro “Il bagaglio invisibile. Storie di vita e pratiche di mediazione interculturale”, esito del corso per la formazione di donne mediatrici (Progetto Equal). Ho raccontato questa esperienza nella ricerca storica “Il bagaglio in-visibile. Esperienze di migrazione e mediazione culturale di un gruppo di donne straniere radicatesi a Brescia” che ha vinto, ex aequo, nel 2004, il Premio Dolores Abbiati promosso dalla Fondazione Micheletti. La passione per la ricerca storica mi ha portata, nel 2008, a registrare le storie di lavoratrici tessili, raccolte nel libro “Tessendo abiti e strategie. Esperienze e sentimenti di operaie bresciane”.

 Nel novembre 2021 è uscito il mio libro Archivi del mare salato. Stragi di migranti e culture pubbliche, una narrazione storico-culturale che ripercorre i maggiori naufragi di migranti avvenuti dal 1990 al 2020 attraverso le tracce lasciate nelle culture pubbliche. 

Roberta Mazzanti 

è stata ricercatrice di Letteratura anglo-americana presso l’Università degli Studi a Milano, dove è nata nel 1953. Dal 1986 al 2010 ha lavorato come editor di narrativa per Giunti, ideando tra l’altro la collezione Astrea dedicata alla narrativa delle donne di varie epoche e paesi. Oggi collabora come editor e autrice con riviste e case editrici. Fa parte dell’Associazione Forum per il libro e della Società Italiana Letterate. Oltre a vari saggi letterari, ha pubblicato due narrazioni autobiografiche: nel 2015 Sotto la pelle dell’orsa (Iacobelli) e nel 2003 “La gente sottile”, in Baby Boomers: vite parallele dagli anni Cinquanta ai cinquant’anni, scritto con Rosi Braidotti, Serena Sapegno e Annamaria Tagliavini (Giunti). Nel 2016 ha curato con Silvia Neonato e Bia Sarasini la raccolta di saggi L’invenzione delle personagge (Iacobelli), e più di recente il volume Moltitudine, solitudine. Wakefield; Bartelby lo scrivano; L’uomo della folla, Edizioni dell’Asino 2021.

“Passi obliqui nella critica letteraria insieme a Liana Borghi: come siamo uscit* dai sentieri battuti per incontrare zebre, balene e altre amate creature”.

Per molti anni nella SIL fiorentina, come nelle iniziative e convegni del Giardino dei Ciliegi, ho e abbiamo condiviso con Liana Borghi letture e discussioni su testi di prosa, poesia e saggistica letterarie. Cercherò di tracciare qualcuno dei percorsi insoliti che Liana ci ha proposto o che ha seguito per noi e con noi, condividendo emozioni intellettuali, riflessioni estetiche e politiche, affetti profondi: andrò a ritroso e a zig zag, da Bayo Akomolafe fino a Emily Dickinson, da Adrienne Rich a Herman Melville, da Anne Michaels a Toni Morrison… e cito qui soltanto alcuni dei tanti compagni e compagne delle nostre esplorazioni into the wild delle letterature.

Maria Nadotti

Giornalista, saggista, consulente editoriale e traduttrice, scrive di teatro, cinema, arte, cultura e società. È autrice di Silenzio = Morte: Gli USA nel tempo dell’AIDS (Anabasi, 1994); Cassandra non abita più qui (la Tartaruga, 1996); Sesso & Genere (il Saggiatore, 1996 e Mimesis 2022); Scrivere al buio (la Tartaruga, 1998 e Tamu, 2020); Prove d’ascolto (edizioni dell’asino, 2011); Trasporti e traslochi. Raccontare John Berger (Doppiozero, 2014); Necrologhi. Pamphlet sull’arte di consumare (il Saggiatore, 2015); e coautrice di Nata due volte (il Saggiatore, 1995). Ha ideato e curato vari libri tra cui: Off Screen: Women and Film in Italy (Routledge, 1988); Immagini allo schermo: La spettatrice e il cinema (Rosenberg & Sellier, 1991); Elogio del margine: Razza, sesso e mercato culturale (Feltrinelli, 1998 e Tamu, 2020); Il cinico non è adatto a questo mestiere: Conversazioni sul buon giornalismo (e/o, 2000); Modi di vedere (Bollati Boringhieri, 2004); Dieci in paura (Epoché, 2010); La speranza, nel frattempo. Una conversazione tra Arundhati Roy, John Berger e Maria Nadotti (Casagrande, 2010); Riga 32 – John Berger (Marcos y Marcos, 2012) e, in collaborazione con John Berger e Selçuk Demirel, What Time Is It? (Notting Hill Editions, 2019).

Curatrice e traduttrice italiana delle opere di John Berger, nel 2021 gli ha dedicato il podcast “Per John B.” https://www.oktafilm.it/podcast/ . È autrice di due cortometraggi documentari: Elogio della costanza (2006) e Sotto tregua Gaza (2009).

Antonella Petricone

Nasce (1975) e vive a Roma. Si laurea in Scienze Umanistiche nel 2003 con una tesi sul carteggio d’amore tra Sibilla Aleramo e Lina Poletti. Consegue il Dottorato di ricerca in Storia delle Scritture Femminili nel 2008 con una tesi su “La memoria dei corpi, i volti della violenza. Tra vissuti e narrazioni, dialogo tra Etty Hillesum e le donne sopravvissute alla Shoah”.

È’ socia fondatrice di Be Free, Cooperativa sociale contro tratta, violenze e discriminazioni.

Ha frequentato il Master di I° livello in Formatori esperti in Pari Opportunità, Women’s Studies e Identità di Genere” presso l’Università di Roma Tre.

Ha scritto per Delt@ news, quotidiano delle donne on-line www.deltanews.it, edito dalla Cooperativa editoriale “Genera”, presso cui ha conseguito il tesserino da pubblicista.

Appassionata di politica, letteratura e storia delle donne, segue dal ‘99 diversi laboratori di donne e scuole politiche dedicate alle questioni di genere. Ha fatto parte della staff del campo donne/femminista di Agape dal 2011 al 2017. È’ ideatrice e organizzatrice della scuola estiva femminista della Cooperativa sociale Befree, che è arrivata alla sua dodicesima edizione.

Docente di Lettere presso la scuola secondaria di primo grado.

Fondatrice con altre docenti, del gruppo fb “Indici paritari-più donne nei testi scolastici e un nuovo linguaggio”.

Marco Pustianaz 

è professore associato di Letteratura inglese e teatro presso l’Università del Piemonte Orientale (Vercelli). Ha pubblicato saggi di teoria queer e di performance studies (in particolare sulla spettatorialità teatrale). Dal 2010 lavora intorno alla nozione di “archivio affettivo” e ha curato con Giulia Palladini Lexicon For an Affective Archive. È stato co-direttore sino al 2021 della collana “Áltera” di intercultura di genere e queer insieme con Liana Borghi. Per ETS ha anche curato Queer in Italia (2011). È membro del direttivo di CIRQUE (Centro Interuniversitario di Ricerca Queer) e del comitato redazionale della rivista Whatever. Nel 2021 ha pubblicato per Routledge Surviving Theatre. The Living Archive of Spectatorship.

Eredità, trasmissione, memoria: lavorare con Liana senza Liana“.

Come pensare a una trasmissione femminista senza cadere nella trappola dell’eredità, dominata da un discorso di patrilinearità o di continuità generazionale (di “debito”)? Forse la questione della memoria ci può riportare su un terreno che è sia affettivo (l’affetto come motore di memoria e di creazione/modificazione di archivio), sia politico. In fondo quello che interessa chi sopravvive non è tanto la propria memoria (in questo caso di Liana) ma una memoria che costruisce nuove connessioni. Per citare fuori dal seminato femminista, si tratta di “ricordare in avanti”. Ecco, forse, come comporre, in modo sempre contingente e non risolutivo, il paradosso della compresenza di assenza (“senza Liana”) con una sorta di persistenza (“con Liana”). Del resto, non si dà memoria senza il trauma di una perdita, poiché non si può ricordare se non qualcosa che si è perduto. Fare i conti con il lutto significa rielaborare il “con” per mezzo di un “attraverso”. Per questo, secondo me, il compito che ci aspetta, e che certo non abbiamo scelto, è quello di “attraversare Liana”, nella densità e nella capacità di dispersione che riconosciamo nel modo in cui è vissuta in mezzo a noi. La trasmissione come attraversamento (“trans-mittere”), non come semplice cura o conservazione di un’eredità. Forse un altro termine potrebbe essere “respons-abilità”, la nostra capacità inalterata di rispondere a Liana senza il beneficio della sua risposta.


Memorie condivise per tasselli di futuro  (Letterate Magazine febbraio 2023)

 Il fare mondo di Liana Borghi, la sua apertura ai campi del sapere, la curiosità sovversiva, la passione che travolge, la necessità di costruire memoria e di non fermarsi solo al ricordo. Un convegno a Firenze e una antologia di scritti

Di Barbara Bonomi Romagnoli

La mappa è lì, appoggiata sui tavolinetti tondi del Giardino. Quando entro e la vedo subito penso a Liana, ai suoi quaderni fitti di appunti dalla scrittura minuta, ai suoi sorrisi e sussurri, alle sue mappe concettuali, sentimentali e politiche.

È il 3 dicembre 2022 e ci ritroviamo di nuovo a Firenze, al Giardino dei Ciliegi per una due giorni dal titolo “Diffrattivamente, con amore. Per condividere ancora le eredità plurali di Liana Borghi” e per far sì che l’affetto circolare e performativo che proviamo per lei, scomparsa nel 2021, crei nuove mappe e tessiture.

Apre i lavori Clotilde Barbarulli, emozionata nel dire che «ricordare Liana significa mettere in luce la sua inesauribile curiosità di conoscenza, la sua apertura a teorie di vari campi, il suo desiderio di farsi attraversare da saperi diversi e la sua generosità nel farli circolare».

Sta a noi fare da ponte con chi non l’ha conosciuta, chi non ha idea di chi sia e di quanto fosse “pungolatrice” così la ricorda Pamela Marelli che guida la prima tavola rotonda, riportando alla mente di tutte, l’esperienza di Villa Fiorelli e delle scuole estive ideate per diversi anni da Liana e Clotilde.

È da questo avvio di conversazione che scopriamo che le mappe distribuite sui tavoli le ha messe Roberta Mazzanti «per smarrirmi meglio – afferma – nel cercare di rintracciare le letture condivise con Liana».

Ed ecco che si apre a noi un arcipelago di suggerimenti che tiene insieme opere sovversive, contro-narrazioni in una commistione continua di generi e geografie letterarie, per uscire «dai sentieri battuti e andare incontro a zebre, balene e altre amate creature».

Fino ad arrivare a quelle che Monica Farnetti definisce le trasposizioni di Liana, nel suo essere un «vettore di trasmissione scintillante e inseparabile dalle persone che ha trasformato con la sua intelligenza». Soprattutto, sottolinea Farnetti, Liana è stata capace di stare “between”, fra le culture, nei crocevia, in quella che può essere definita la sua formula dell’esistenza.

E, ancora, non si può non nominare, conclude Farnetti, quanto Liana fosse l’amica “con-geniale” per eccellenza, amicizia come relazione in cui ognuna fa risplendere le doti dell’altra.

Non è certo facile, da queste premesse, parlare di eredità, parola scomoda su cui in molte nutriamo dubbi, per via delle intersezioni che si creano fra personale e politico, sentimentale e concettuale, materiale e spirituale: prova a tracciare una via Samuele Grassi, delineando le utopie (im)possibili condivise con Liana, dalla pedagogia disobbediente all’intercultura di genere, dalla socialità amorevole allo sguardo sempre attento alla complessità, dal disimparare per imparare altrimenti alla sottrazione nella discontinuità con la tradizione, dall’anarchia come movimento di latenza alla critica queer delle istituzioni.

Da tutto questo è possibile partire per riparare anche quelle che Liliana Ellena chiama «le fratture che ci attraversano – pandemia e guerra – e che creano un groviglio», e che possiamo collettivamente assemblare negli archivi, per creare zone di turbolenza per una memoria non convenzionale e non omologata. Così che si possa dire con Federica Frabetti che «una idea cresce se la collettività la prende e la vive» e se impariamo, nel solco di Liana, a operare cesure fertili negli studi culturali.

È quasi finito il primo giorno di memoria condivisa quando irrompe nella presenza della sala dei Ciliegi, l’intervista a distanza a Sara Ahmed a cura di Maria Nadotti e tradotta da Giada Bonu. La potenza di Ahmed nel delineare quello che lei chiama lo “sbrocco collettivo” getta energia nella sala, quasi che facesse da collante a tutto quello che è stato detto per pensare assieme Liana, in quel linguaggio delle relazioni che Marco Pustianaz traccia nel dare avvio alla seconda giornata di riflessioni comuni, coordinate da Antonella Petricone.

Pustianaz mette in luce una limpida verità: chi ci lascia, lascia un modo di abitare il mondo. E noi abbiamo contezza di come Liana ha abitato i femminismi e di come il suo desidero di fare mondo si connetta con la consapevolezza che è necessario costruire memoria, non fermarsi semplicemente al ricordo.

È per questo che in molte hanno deciso di partecipare ad una prima opera collettiva dedicata a Liana, si tratta di “Tessiture. Il pensiero fertile di Liana Borghi” (Fandango, 2023) a cui hanno contribuito Le Acrobate (Elisa Coco, Pamela Marelli, Antonella Petricone, Alessia Rocco, Filippo Rebori), Elia A.G. Arfini, Clotilde Barbarulli, Elena Biagini, Rachele Borghi, Elena Bougleux, Rosi Braidotti, Renato Busarello_Laboratorio Smaschieramenti, Monica Farnetti, Paola Fazzini, Nina Ferrante, Federica Frabetti, Samuele Grassi, Francesca Manieri, Giuliana Misserville, Maria Nadotti, Monica Pietrangeli, Marco Pustianaz, Cristina Raffo, Nicoletta Vallorani, Federico Zappino.

Una biografia collettiva, come l’ha definita Elvira Federici nell’introdurre il dibattito conclusivo del weekend, ma anche un “libro come una casa” in cui ritrovarsi, per usare le parole di Maria Nadotti. O quando, ricorda Elena Biagini, pensare a Liana significa pensare anche a quelle situazioni create da lei per metterti un po’ al muro, impossibile dirle di no su un progetto, un’idea. O sulle domande continue che poneva a chi, come Elisa Coco, ha aperto la sua danza femminista proprio nell’incontro e incastro con Liana e le altre Fiorelle conosciute alle scuole estive. Del resto, e non può non sottolinearlo Elena Bougleux, il campo gravitazionale di Liana aveva un obiettivo: aggregare forme di pensiero, anche per mettere in discussione la scienza attraverso la narrativa femminista. Una sfida non da poco certo, come quella rilanciata da Gaia Giuliani che si/ci chiede: come passare dalla micropolitica degli affetti alla macropolitica delle lotte? Come configurare un orizzonte di alleanze?

Una possibile risposta c’è l’ha data Clotilde Barbarulli all’apertura: «occorre essere guardingh* verso i propri schemi mentali con i quali necessariamente esploriamo il mondo poiché questi possono facilmente diventare una prigione, norma schema ripetizione slogan». E, conclude Barbarulli: «ci auguriamo che con questo incontro si creino quelle emozioni che si muovono tra corpi e segni e fanno delle cose, immaginano tasselli di futuro».

Siamo ripartite tutte con l’idea che sì, si possono immaginare tasselli di futuro, pensando a Liana e, come ha avuto modo di dire Elia A.G. Arfini, “fidandoci ancora una volta di lei”.

AA.VV. “Tessiture. Il pensiero fertile di Liana Borghi”, Fandango, 2022

Convegno “Diffrattivamente, con amore. Per condividere ancora le eredità plurali di Liana Borghi”, 3-4 dicembre 2022
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