Roberta Mazzanti

Passi obliqui nella critica letteraria insieme a Liana Borghi: come siamo uscit* dai sentieri battuti per incontrare zebre, balene e altre amate creature.

Tra riflessione e commozione, riscoperte e continui smarrimenti, mi sono aggirata tra le eredità di Liana… e ringrazio il Giardino dei Ciliegi per avermi offerto l’occasione di condividerle, ma in particolare ringrazio Clotilde Barbarulli che ha condotto a buon fine questo convegno, carico per lei più che per chiunque altr* di noi, di tanti ricordi ed emozioni.

Gli smarrimenti sono originati dalla sua mancanza, perché lei sapeva agire come una bussola gentile per le letture e le riflessioni del nostro gruppo SIL fiorentino; e sono smarrimenti benefici, germogliati dalla poliedricità degli interessi e dei saperi di Liana. Così ho provato a seguire le suggestioni sparse nel corso degli anni (per me sono soprattutto piste letterarie), apparentemente distanti nel tempo storico secondo le misurazioni tradizionali, ma in realtà vicinissime tra di loro al di là dei secoli e dei luoghi che li hanno originati, e seguendo le piste ho tracciato una mappa molto parziale, da un lato per smarrirmi meglio e dall’altro per mostrare a me stessa, e quindi a voi, quale innumerevole varietà di intra-azioni esista tra queste opere nonché tra coloro che le hanno interpretate. Perché la lezione che ho condiviso con Liana è stata anche quella dei modi critici di leggere le opere letterarie, e perché le nostre comuni maestre e maestri sono grandi interpreti, i quali hanno letto e scritto con doti di bellezza stilistica e profondità che non hanno molto da invidiare agli scrittori di prose e poesie ai quali si sono dedicati.

Perciò, partiamo da questa mappa – che è letteraria e culturale ma anche intensamente politica, sia per i contenuti delle opere che qui ho segnato, sia perché le letture critiche di cui vi dicevo sono letture “orientate”, impegnate, letture di parte che cercano di individuare le relazioni/diffrazioni fra testi letterari, ideologie e ambienti.

Sono tutte opere sovversive sia nei contenuti che nelle forme (e su questa carica sovversiva tornerò più volte), sono contro-narrazioni e rotture nella letteratura e nella critica letteraria tradizionali perché provengono da una commistione, da un compostaggio tra approcci teorici nati nelle culture europee e altri metodi e criteri d’interpretazione sviluppati in quelle nordamericane. Questa commistione rappresenta uno dei più saldi legami tre Liana e me (e altre care persone, viventi e non), come già vi ho raccontato qui al Giardino dei Ciliegi, nel primo incontro a lei dedicato dopo la sua morte.

Nella mappa compaiono nomi di scrittrici e scrittori e titoli di alcune loro opere, nomi di critici e loro testi interpretativi dedicati agli autori, parole chiave che permettono di tracciare le diffrazioni e le influenze – ciascuna/o di voi potrà fare nella mappa i propri collegamenti, pressoché infiniti… io stessa nei giorni scorsi ne ho trovati tanti, ve ne propongo soltanto alcuni trascurandone altri che mi sarebbe piaciuto suggerirvi.

Si trovano nella mappa anche nomi di animali, perché uno degli ultimi libri che abbiamo condiviso con Liana nel gruppo di lettura è stato L’assemblea degli animali. Una favola selvaggia, scritto da un autore che si nasconde dietro lo pseudonimo di Filelfo. È la storia fantastica di una pandemia originata dalla punizione che gli animali, riuniti in assemblea di fronte alla gravità dei danni alla Terra provocati dagli umani, decidono di infliggere al genere umano tramite una infezione trasmessa dai topi. Dal morbo devastante si salveranno soltanto gli animandri, esseri ibridi che potrebbero essere affini alle critters di Donna Haraway.

La favola di Filelfo non poteva mancare di affascinare Liana, che già in “Somatech”, una voce da lei curata nel volume collettivo Lessico della crisi, aveva scritto: “secondo Preciado, per resistere ai processi di controllo disciplinare di corpi, affetti e sessualità è necessario costruire ‘un corporativismo planetario somatico libertario, una cooperazione di (tutti) i corpi viventi dentro e insieme alla Terra’”.

Trovate perciò nella mappa le balene, a partire dal grande Moby-Dick, ma ci sono balene anche nel romanzo di Dionne Brand Di luna piena e di luna calante, e la fatidica balena bianca melvilliana riappare in uno scritto di Anna Maria Ortese.

Trovate le zebre, alle quali ricorre l’americanista Mario Corona per simboleggiare il punto di vista queer che aveva unito studiose e studiosi di letteratura in un gruppo all’Università di Bergamo, gruppo di cui anche Liana faceva parte insieme a Marco Pustianaz, a partire da un seminario del 1999.

E perché mai scegliere le zebre? Scrive Corona che in un brano di Redburn, altro romanzo di Herman Melville, “compare una confusa teoria di animali ‘per metà reali e umani, per metà selvaggi e grotteschi’. E ‘tra la folla confusa di creature e centauri’ spicca una zebra, ‘creolo quadrupede morbido come la seta’”. (…) Una partecipante al seminario del 1999 aggiungeva che “la zebra è stata a lungo studiata dagli scienziati come un animale molto strano, perché pur essendo preda potenziale dei grandi carnivori non ha sviluppato un manto mimetico, ma anzi ne sfoggia uno assai vistoso. Non si nasconde, però si muove sempre in branco… contando proprio sull’effetto optical del manto, che sconcerta l’aggressore impedendogli di percepire chiaramente dove sia la testa della preda e dove la coda. Sicché alla fine il leone si butta in mezzo a tutte quelle strisce, finendo spesso a terra tra una zebra e l’altra, mentre loro se ne vanno (…) avevamo trovato la nostra identità, o almeno un abito di scena”.

Per tracciare delle rotte in questo arcipelago di opere e autori e cercarne le diffrazioni, partiamo dagli oceani, perché gli oceani e le loro rotte di traffici e commerci (anche di corpi umani perché molte opere parlano della tratta schiavistica, in particolare sulle rotte atlantiche) e quindi si parla anche di diaspore e di naufragi.

Allora iniziamo a navigare partendo da uno dei più grandi romanzi di mare di tutti i tempi, Moby-Dick (1851) e lo facciamo attraverso la lente del queer, grazie a un bel testo critico di Mario Corona, maestro e collega mio e di Liana, che nel 1984 pubblica Prima del viaggio. Per una lettura di Moby-Dick.

Corona fonda la sua analisi a partire dalla diabolicità del romanzo: Melville aveva scritto al suo amico e scrittore Nathaniel Hawthorne che Moby-Dick era “un libro malvagio” ma dopo averlo scritto si sentiva “immacolato come un agnello”, e aveva parlato di “un fuoco d’inferno che rosola l’intera opera”, battezzata nel nome del diavolo.

Aggiungeva di aver scritto un’opera che intendeva “dire la Verità: anche se nascostamente e a sprazzi”, (e vedrete come il suo intento di parlare secondo allusioni e codici segreti si appaia a quello di Emily Dickinson, sulla quale approderemo alla fine). Con piena coscienza dell’anomalia che quel suo insolito romanzo, come pure quelli successivi a Moby-Dick, non avrebbe incontrato il favore del pubblico e avrebbero innescato una profonda crisi personale e autoriale.

Un romanzo che tra l’altro denunciava una relazione predatoria con il creato, mettendo in risalto il dispotismo fanatico del capitano Achab contro la Balena Bianca ma narrando nel dettaglio anche tutta l’organizzazione sociale ed economica che regolava la caccia alla balena, e toccando in modi più o meno espliciti la pervasività del razzismo nella società americana.

Mario Corona si concentra sui capitoli inziali, appunto prima della partenza per la caccia della baleniera Pequod (nome di una comunità nativa estinta, non per caso scelto da Melville), e focalizza l’attenzione sul personaggio del narratore, autonominatosi Ishmael, e sul suo anomalo partner, il ramponiere Queequeg. La loro relazione è un perfetto esempio di queer, parola che l’altro ricorre più volte nelle pagine del romanzo. Non per caso, la firma che Queequeg appone sul contratto di ingaggio è una queer round figure.

Per la straordinaria ricchezza di allusioni e messaggi cifrati che Melville dissemina nei capitoli in cui descrive questa inaspettata e singolare amicizia, rimando all’analisi testuale, tanto convincente quanto originalissima, esposta da Mario Corona nel quinto capitolo del suo saggio, e in particolare nelle pp.120-162.

Aggiungo che la “prima notte” di Ishmael e Queequeg, costretti inizialmente dall’affollamento della locanda The Spouter-Inn (Lo sfiatatoio) a dividere il letto nuziale del locandiere, è un perfetto esempio di quelli che possiamo definire “spazi negoziali” tra “lo straniero” e il soggetto bianco, dove lo spazio sociale e quello corporeo sono permeabili (come scriveva Liana in Genere, individualità, globalizzazione: visioni in/sostenibili).

Passo a un altro bel libro di critica letteraria e sociale su Moby-Dick, scritto da un grande intellettuale e attivista nato a Trinidad, C.L.R. James – storico scrittore e politico militante, esponente importante dei primi studi storici sulla schiavitù e sulle rivolte degli schiavi neri sul continente americano, autore del famoso studio storico I giacobini neri, dedicato alla rivolta degli schiavi di Haiti capeggiata da Toussaint L’Ouverture. 

Il saggio di C.L.R. James che qui mi interessa è però Mariners, Renegades and Castaways: The Story of Herman Melville and the World We Live In,  che racconta la caccia fatale a Moby-Dick dal punto di vista della ciurma del Pequod: la baleniera è un microcosmo che riproduce la mescolanza problematica di popoli lingue tradizioni e religioni degli Stati Uniti, e la ciurma capeggiata dal fanatico Achab è composta di rinnegati e reietti, “respinti”. Ma il termine originale, castaways, mi rimanda un’eco più vasta, letteralmente i “gettati via”, gli scarti men che umani. Troveremo altri “gettati via” nei romanzi di Dionne Brand, dei quali tra poco parlerò, e tra l’altro anche Brand proviene da Trinidad come C.L.R. James, benché da molti anni viva in Canada.

Fra Ismaele e Queequeg, così come fra i marinai e ramponieri a bordo del Pequod, si creano legami di solidarietà e affinità, kinship fra esuli, emarginati e solitari (bellissime le descrizioni dell’isolamento regale e malinconico di Queequeg).

Ho subito pensato alle kinship narrate nel romanzo di Monique Truong, The Book of Salt, alle relazioni amicali e sessuali del protagonista, il giovane cuoco Binh, anch’egli esule, marinaio per forza ma cuoco per vocazione. 

Vincenzo Bavaro (uno studioso che ha partecipato ai seminari e convegni delle Zebre), in un volume prodotto da questo gruppo nel 2009 esamina la storia di Binh, giovane gay costretto all’esilio proprio perché queer, scacciato dal padre e dai padroni quando la sua omosessualità viene scoperta, e dopo peripezie oceaniche accolto come cuoco da una famosa e più che benestante coppia lesbica, quella di Gertrude Stein e Alice B. Toklas nella loro elegante e salottiera dimora parigina.

La città di Parigi e la lingua francese, luogo intermedio, rappresentano nel romanzo uno spazio sospeso tra Viet Nam e America. Il giovane cuoco Binh è sempre in luoghi di transito (che siano navi o ponti sulla Senna) e insidiato dalla nostalgia dell’esule, a malapena curata da quelli che per le sue Mesdames sono sapori “esotici”; e Truong è magistrale nel narrare il classismo e il razzismo inconsapevole della snobbissima coppia Stein-Toklas. 

Due nodi cruciali: home-sickness e relazione servo-padrone nell’ordine mondiale coloniale, su cui Bavaro adotta prospettiva queer per trattare di migrazione, transnazionalismo e della loro relazione con la sessualità.

Una domanda angoscia Binh e scorre ossessiva sotto tutta la trama del romanzo: Si può tornare a casa? 

La domanda ci conduce ad altre parole chiave, diffrazioni con altri romanzi e testi poetici: quelli di Dionne Brand, di Anne Michaels, di Toni Morrison: come e dove si può tornare, se la diaspora, ciò che ha costretto a lasciare la casa, il luogo e la lingua native, ha cancellato i percorsi, ha distrutto le genealogie?

Secondo Brand gli effetti indelebili della tratta schiavistica e della conseguente vita in schiavitù assillano le generazioni a venire, fino al punto da renderle sottomesse a spettri di incapacità e dolore – ribaditi dall’emarginazione sociale e dalla perdita di legami con le cure e le eredità materne. I personaggi dei suoi romanzi Di luna piena e di luna calante e Il libro dei desideri sono tutti queer, uomini e donne anomali e danneggiati in modi diversi ma irreparabili dalla perdita, sparpagliati dal dominio coloniale e postcoloniale in vari continenti e oscuramente attratti da una “casa” che non sanno più come raggiungere.

Le loro memorie sono frammentarie e non comunicano tra di loro, benché i tanti protagonisti provengano da un’unica matrice, Bola, una madre immemore e abbandonica, tutta sensualità e istinto, a sua volta figlia di Marie Ursule, schiava ribelle che ha capeggiato un suicidio di massa come estremo danno al padrone della piantagione; la vicenda di Marie Ursule e dell’auto-avvelenamento di massa che lei capeggia nel romanzo si rifà a una storia vera. Evidente è l’influenza, la suggestione che su Dionne Brand ha avuto la grande scrittrice statunitense Toni Morrison, da Brand riconosciuta come sua maestra nel trasporre in materia narrativa la disperazione, il coraggio e la creatività delle donne nere, dal periodo della schiavitù nelle Americhe fino alla vita contemporanea negli Stati Uniti, perché anche l’uccisione di una figlia per non farle subire la schiavitù, dramma che sta al centro di Beloved di Toni Morrison, uno dei più bei libri di narrativa di tutto il Novecento, si rifà a una storia vera.

Così come il ritorno dei fantasmi – portatori del dolore rimosso, testimoni muti ma inquietanti nel mondo dei vivi –, è parte cruciale delle storie dolentissime e potenti che Morrison ci ha offerto, giungendo fino all’ultimo, più conciso ma non meno intenso romanzo che è Home, del 2012, storia di Frank Money, veterano nero della guerra di Corea che è ricoverato in ospedale al suo ritorno negli Stati Uniti della segregazione, perché traumatizzato e smemorato a causa delle violenze agite e subite combattendo per la “loro” guerra, la guerra dei bianchi; per buona parte della vicenda Frank tenta faticosamente di tornare a casa dove lo attendono la sorella (a sua volta vittima di violenza razzista) e altre donne nere che sapranno forse curarlo.

Dionne Brand ha scritto un bel saggio sull’impossibilità del ritorno a casa, sulla perdita di una origine, di una genealogia certa, provocati dai rapimenti e dalle dislocazioni di chi ha subito la schiavitù, la segregazione e i cui discendenti ancora oggi si trovano ad affrontare il razzismo e l’emarginazione: si intitola A Map to the Door of No Return: Notes to Belonging. Non esiste possibilità di ritorno: anche chi sopravvive o si emancipa soffre uno smarrimento trans-generazionale. 

Non tocco qua il tema delle differenti narrazioni sulla diaspora e sulla necessità di fare memoria, sulla esistenza e importanza delle genealogie, differenze tra Dionne Brand e Anne Michaels, l’una caraibica nera e l’altra ebrea bianca di origine europea ma entrambe viventi e scriventi in Canada; differenze che Liana Borghi e io abbiamo esposto in un saggio a quattro mani, “Mappe della perdita: periperformatività della diaspora in Anne Michaels e Dionne Brand”. Basti solo dire, in questo discorso odierno, che “continuando ad infestare la memoria e la coscienza degli africani della diaspora, la schiavitù costituisce un lutto ancora irrisolto, uno schema, da cui essi ancora non si sono affrancati, che continua a regolamentare i loro corpi”.

Per Michaels memoria e testimonianza – materiali della Storia di queste narrazioni – uniscono il precetto ebraico del ricordare all’elemento salvifico della ricostruzione genealogica; parla infatti di “redenzione attraverso il cataclisma”, e di trovare “nella storia ciò che si è perso”. I testimoni del trauma possono reciprocamente aiutarsi nelle complesse operazioni di lutto e redenzione. Per Brand invece, nonostante la testimonianza rompa il silenzio, accusi, rimembri ciò che si è perduto, la storia è un “pozzo avvelenato” che non offre la consolazione riparatoria trovata da Michaels; anzi, può solo suscitare il fantasma della Porta del Non Ritorno, la scena primaria senza possibilità di restituzione che nella tradizione caraibica è diventata uno schema culturale dove la storia delle comunità non è separabile dalla vergogna sociale. “… la lingua, perduta la prima lingua madre, si creolizza mescolandosi alle lingue trovate o imposte, in un rapporto di traduzione inaffidabile con le cose. (…) Anelli di una effimera catena di senza nome, interrotta, manchevole e afasica, i personaggi di Brand trovano inaffidabili le mappe per uscire dalla palude. Le parole significano ma non rimandano a ulteriori certezze, a possibili ‘verità’. Il terreno di questo paesaggio non è roccia dura ma arenaria friabile insidiata dal mare. Il desiderio è un craving libidinale che nasce e resta nella carne, che si appaga della sua autosufficienza e, come il linguaggio, abita ma non spiega il paesaggio e le cose”.

La perdita di memoria e il rischio di follia senza scampo che affliggono Frank Money nel romanzo Home di Morrison ci ricordano molti personaggi e personagge del romanzo Di luna piena e di luna calante di Dionne Brand, come Sones, emarginato ex-soldato nelle guerre coloniali e rigettato in quanto “insubordinato”, o come l’inquietante, alienata ragazzina che è l’ultima discendente di Bola, chiamata non casualmente come la sua ava.

Le lettere di “posta aerea celeste” spedite a casa da Eula, colei che è emigrata nel Nord del continente americano per sfuggire alla miseria delle origini, lettere mai ricevute da sua madre ormai morta perché respinte dalla folle Bola, sono come le Dead Letters, le Lettere Morte mai ricevute per la scomparsa dei loro destinatari, che si accumulavano nel Dead Letters Office dove aveva forse lavorato Bartleby, lo sconcertante scrivano protagonista del racconto di Melville (senza dubbio uno dei racconti più perfetti e suggestivi della letteratura statunitense).

Bartleby è un altro “smarrito”, anche se la sua storia non si svolge nelle periferie dell’impero ma a Wall Street: e tuttavia, di questo luogo “murato” nel cuore del capitalismo newyorchese Melville ci dà una rappresentazione desolata: il solitario Bartleby diventa lo spettro vivente che assilla il suo datore di lavoro, un avvocato che tiene alla sua rispettabilità e all’efficienza del suo ufficio e si barcamena tra le abituali idiosincrasie degli altri suoi scrivani. Ma quando si palesa in modo quasi fantasmatico il pallido Bartleby, irriducibile alle logiche dell’avvocato e di Wall Street, quel paternalistico sistema instaurato da anni va in pezzi.

Fra i tanti bei saggi critici dedicati a questo racconto, ho scelto l’originale lettura che ne dà Gilles Deleuze. E l’ho scelta perché parte da quella che Deleuze chiama la “Lingua della Balena, l’Outlandish, o il “deterritorializzato”, in cui le mappe sono forme dello smarrimento, dove le navi vagano e naufragano. Tra l’altro, nel suo saggio molto stimolante Deleuze osserva che “L’atto fondativo del romanzo americano, come anche del romanzo russo, è stato di portare il romanzo lontano dalla via della ragione, e di dare vita a personaggi che si reggono nel nulla, sopravvivono solo nel vuoto, custodiscono fino alla fine il loro mistero, e sfidano logica e psicologia. La loro stessa anima, dice Melville, è un ‘vuoto immenso e terrificante’ (…)”.

Al suo apparire come un fantasma, Bartleby viene vissuto e descritto dall’avvocato come “incurably forlon” e l’aggettivo forlorn torna alla fine, quando B. viene trovato morto nel cortile della prigione”. Derelitto, per dare il senso di un’orfanità assoluta, di un uomo senza legami né affetti. Solitudine misteriosa che ammanta molti dei grandi personaggi creati da Melville, compreso il disgraziato Benito Cereno, capitano spagnolo protagonista di un altro meraviglioso racconto melvilliano in cui un gruppo di schiavi neri in rivolta si impadronisce della nave negriera Saint Dominique (apparentemente capitanata da Cereno) e mette in scena una straordinaria finzione per ingannare il capitano nord americano che li intercetta.

Non a caso, l’incapacità di comprendere che cosa sia accaduto sul galeone spagnolo da parte dell’americano – che non può concepire una congiura di schiavi tanto ben riuscita da ribaltare i poteri e le relazioni schiavo-padrone – viene considerata dai critici esemplare della cattiva coscienza che rimuove il Male e del razzismo mascherato da paternalismo.

Non esiste kinship duratura, per questi personaggi melvilliani, che restano anche isolati in mezzo a una Natura potente, ostile o al meglio indifferente.

Ben diversa relazione da quella che sperimentano i protagonisti dei romanzi e delle poesie di Anne Michaels, dove le correnti di desiderio fra gli umani e il resto del mondo animale, vegetale e minerale, i legami di attrazione – diremmo oggi gli entanglement – che lei definisce con il termine inglese di longing, un desiderio struggente di fusione, offrono la possibilità di una comunanza, di un belonging grazie al quale gli umani riconoscono di appartenere alla comunità dei viventi in ogni sua forma, e riconoscono anche le forme di convivenza con i morti, le loro tracce spettrali che possono essere terribili ma anche fertili suggeritrici di quelli che la scrittrice canadese chiama “sad new powers”, i nuovi tristi poteri che nel mondo dei sopravvissuti alla catastrofe sono attuati dalle parole del lutto, della poesia, degli affetti.

Essendo io una seguace del materialismo poetico, sono convinta che sebbene la poesia non possa curare il mondo né rivoluzionarlo, può tuttavia permetterci di sopravvivere meglio, di vivere oggi nei frammenti dei “grandi disegni” del passato e sostenere i traumi collettivi e individuali.

Inutile che vi sottolinei quanto un simile sentire, la ricerca e l’amore per “il sacro naturale” accomuni le opere di Anne Michaels a quelle di Chandra Candiani e di Anna Maria Ortese, e come mi sarebbe piaciuto farle dialogare di persona tra di loro.

E qui arriviamo infine, grazie a queste tre autrici, ai loro temi ma anche alle loro forme stilistiche, al centro della mia mappa e a colei che è stata il mio punto di partenza, Emily Dickinson con la sua immensa e sorprendente, perenne attualità.

Lei che, come Melville, diceva la verità in modo obliquo, slant – sgembo, deviato, non vi ricorda l’obliquità del queer? Anche perché queer deriva dal tedesco quer, diagonale, di traverso, quindi slant

Marisa Bulgheroni è stata fra i critici italiani la più acuta nell’individuare gli scardinamenti linguistici dickinsoniani, la più suggestiva nell’interpretare la visionarietà con cui lei trasforma gli elementi naturali, ne descrive le metamorfosi fra umano e non umano. Del suo saggio Il bestiario di Emily Dickinson avevamo parlato tanti anni fa, ammirate, Liana e io.

Aggiungo che nella sua notevole introduzione al Meridiano di Dickinson, Bulgheroni parla dell’esperienza dell’estremo, del tremendo, dell’estasi, in cui decade ogni misura, scompare ogni percezione “normale” e la coscienza si dilata oltre ogni confine; illocality, la chiama con un neologismo modernissimo e quasi psichedelico. 

Da questa edizione traggo due poesie che dedico a Liana e a noi tutte e tutti:

963

Una vicinanza al Tremendo –

Un’Agonia procura –

Afflizione supera l’Illimitato –

L’Aderenza alle Leggi 

Della Contentezza la quieta Periferia

Afflizione non può misurarsi

In Acri – la Sua Locazione

È l’Illocazione –

1129

Di’ tutta la verità ma dilla obliqua –

Il successo è nel cerchio –

Sarebbe troppa luce per la nostra debole gioia

La superba sorpresa del vero –

Come il lampo è accettato dal bambino

se con dolci parole lo si attenua –

così la verità può gradualmente

illuminare – altrimenti ci accieca –

Firenze, dicembre 2022-marzo 2023

Passi obliqui nella critica letteraria insieme a Liana Borghi: come siamo uscit* dai sentieri battuti per incontrare zebre, balene e altre amate creature.

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