Troubling Liana. In memoriam di Liana Borghi

Gaia Giuliani

Siamo state recuperate, riabilitate all’uguaglianza neoliberista, alla famiglia standard, persino all’esercito – mentre assistiamo alle perdite nel sociale, all’impoverimento dell’istruzione, al dileguarsi dei diritti e del lavoro nel nostro presente degradato dove continuano i pestaggi ma si autorizzano i raduni neofascisti, dove sfruttamento e precarietà sono la norma, mentre le donne continuano a essere ammazzate dai loro uomini nonostante si sia architettata una specie di legge per proteggerle, e i Centri di identificazione ed espulsione non li chiude nessuno, anzi continuano a riempirli le carrette del mare, quelle che non affondano. Perciò penso sia opportuno cercare di capire quali nostri atteggiamenti ci normalizzano e ci portano ad accettare questa situazione, a rifugiarci nella piccola felicità individuale, che non è poco, certo, e di per sé è una gran fortuna, ma non basta a rendere buona una vita cattiva.

Borghi, 2014, p. 

Chthulucene is a simple word. It is a compound of two Greek roots (khthôn and kainos) that together name a kind of timeplace for learning to stay with the trouble of living and dying in response-ability on a damaged earth. Kainos means now, a time of beginnings, a time for ongoing, for freshness. Nothing in kainos must mean conventional pasts, presents, or futures. […] Chthonic ones are monsters in the best sense; they demonstrate and perform the material meaningfulness of earth processes and critters. They also demonstrate and perform consequences. Chthonic ones are not safe […] No wonder the world’s great monotheisms in both religious and secular guises have tried again and again to exterminate the chthonic ones. The scandals of times called the Anthropocene and the Capitalocene are the latest and most dangerous of these exterminating forces. Living-with and dying-with each other potently in the Chthulucene can be a fierce reply to the dictates of both Anthropos and Capital.

Haraway 2016, p. 2

Scrivo questo contributo per Liana Borghi, con Liana nel cuore, per almeno tre ragioni semplicissime. Prima di tutto, Liana, con Clotilde Barbarulli, mi hanno obbligata, per quasi vent’anni a riflettere sul mio posizionamento e sulle diverse (per intensità e complessità) odissee nella violenza che le persone devono affrontare a partire dai regimi di oppressione di cui sono oggetto e a partire dalla propria inestinguibile e unica esperienza di vita. 

Non meno importante, lei, ha praticato a tutto tondo la cura come alleanza politica tra i corpi (Butler 2015), o meglio ancora, come alleanze tentacolari e lussuriose come solo i mostriciattoli chtonici possono creare (Haraway 2016). Lei, insieme alle sue compagne di sempre del Giardino dei Ciliegi, della società delle Letterate, del CLI, di Villa Fiorelle ma anche a tutte le esperienze politiche che ha attraversato e che ha lei stessa contribuito a creare, ci ha così costantemente interpellate su cosa per noi volesse significare ricevere cura, e praticarla. In Tessiture – il volume appena uscito (2022) in ricordo di Liana, Clotilde Barbarulli scrive della loro esperienza insieme, inseparabili da più di vent’anni, riferendosi sia alla Scuola di Villa Fiorelli a Prato, sia al Giardino dei Ciliegi di Firenze: «Era un impastare lo spazio per riappropriarci degli strumenti necessari: un agire pubblico e comune, un potere giusto e partecipato, un linguaggio condiviso e creativo. Senza dirlo esplicitamente, Liana e io chiedevamo ogni volta di contribuire a realizzare una piccola utopia effimera e contingente costruita nell’immediato praticando una socialità costruttiva, creando legami fatti di interrelazione, di reciprocità, di partecipazione e vicinanza.» (p. 42). Legami, continua Clotilde, che non prescindono mai dalla critica e dall’autocritica, poiché anche gli affetti non sono che un dispositivo per la riproduzione di capitale, violenza patriarcale e colonialismo (p. 46). Un’interpellazione forte, quella di Liana e Clotilde, che abbiamo fatto nostra, in tutti questi anni di confronto tra me e tantx altrx compagnx, a partire dalle Betty di Sexyshock (Bologna), da Chiara Martucci e Manuela Galetto di Scovegno (Milano), dalle tante anime degli hackmeeting, della MayDay di Milano, e dei progetti femministi e queer post-identitari di tutt’Italia.

Allo stesso tempo, da studiosa e militante lesbofemminista, Liana ci ha ricordato l’importanza di fuggire le identità soffocanti così come i soprusi (incluso il controllo consustanziale alla cura), ma anche combattere in nome dell’irriducibilità della specificità umana, quella che noi chiameremo favolosità, chiedendola in prestito alla comunità trans, per una giustizia per tuttx.

Marco Pustianaz ricorda che per lei: «il posizionamento non ha a che fare con l’identità ma come il riconoscimento di una collocazione singolare immersa nel mondo, così come la politica non ha a che fare con la rivendicazione di diritti individuali o soggettivi, ma come “giustizia globale” come afferma nella prima pagina, e non solo di genere.» (p. 151). 

Sulla scia della lettura di Marco, e della mia affinità con Liana, proprio su questi due binari intrecciati e inestricabili di etico e politico, voglio collocare la riflessione che segue.

Inoltre, come ricorda Maria Nadotti, nello stesso volume, quello di Liana – e il mio – è: «un femminismo affettivo [capace di] assumere la dissoddisfazione, l’harawayano “staying in trouble”, la nostra comune e inevitabile mortalità come miccia al pensiero e all’azione, come antidoto tanto alla rassegnata meditazione quanto al generoso ma cieco attivismo.» (p. 145). Mi ritengo molto vicina all’invocazione che Liana fa di Haraway, e faccio tesoro del mio essere casinara, casinista e incasinata sulla soglia e dentro il gorgo di costanti sconfinamenti (altra parola cara a Liana, come ricorda Nicoletta Vallorani nel volume, p. 156). Infine, sento Liana nello stomaco, fa scaturire in me un pensiero dolce e appassionato e la consapevolezza che, come per lei, il personale è sicuramente politico, ma ancor più il politico è personale, perché fonte di passione, di sgomento, di audacia, di determinazione e di gioia.

Posizionamenti

Ora, se in quanto femminista, mi sono sempre parecchio posizionata, Liana mi ha obbligato sin dal nostro primo incontro nel 2004 a riflettere su di me in una dimensione attraversata dalle contraddizioni di genere, sessualità, razza, cittadinanza e cultura, quando avevo appena cominciato ad analizzare, con molti collettivi e molte persone, il nesso tra sessualità e precarietà (i.e. Rich 1987; Frankenberg 1993). Ne abbiamo scritto, poi, con Chiara Martucci e Manuela Galetto nel volume che ospita e che si chiude con il saggio di Liana sul quanto queer (L’amore al tempo dello tsunami. Affetti, sessualità e modelli di genere in mutamento 2014). Ne abbiamo scritto, insieme, con Chiara Martucci in un saggio a quattro mani dal titolo “The Love Word. Autonarrazioni a confronto (1993-2013)” presente in quel volume, tentando di far dialogare sia ciò che era già in dialogo, sia le nostre irriducibili favolosità, in un momento in cui la precarietà ci schiacciava, ci deludeva, ci faceva ammalare, ma ci faceva anche e soprattutto esserci l’una per l’altra.

In realtà tutto era iniziato ben prima, prima ancora di conoscere Liana di persona. Liana era stata la curatrice della traduzione del Manifesto cyborg di Donna Haraway, il libro che cambiò radicalmente la mia vita, facendo di me quel che sono oggi: quando nel 1996 lo lessi per la prima volta, quel linguaggio, quel lessico, quella postura politica così come Liana li aveva tradotti, divennero per sempre non solo la grammatica della mia (post)identità, ma soprattutto la sintassi di un’epistemologia che, in grado di accogliere le proprie incoerenze e contraddizioni, è ancora oggi quella che contraddistingue il mio pensiero e azione.

1996 e 2004, due momenti fondamentali a partire dai quali posizionamento e cura, sottrazione, resistenza e rivolta sono stati ripensati centinaia di volte, in compagnia di intellettualx e militantx, dentro i circuiti femministi ma anche laddove il femminismo non era chiamato in causa, in questo scorrere di persone che restano, luoghi che cambiano, corpi che crescono e corpi che invecchiano. Di fronte a svariate catastrofi naturali, umane e sociali ci siamo chieste – e Liana c’era già arrivata nel 2014 – cosa volesse dire ‘cura di Gaia’, nel senso del riconoscimento dell’interdipendenza tra i corpi e, come diceva Liana sulla scorta di Barad, di tutto quello che mette i corpi in relazione (la materia o non-materia intra-corporea che sostiene la vita e il linguaggio) che sia animato o inanimato, materiale o simbolico. Ora sappiamo che cura, sottrazione e cura del sé, e ‘cura di Gaia’ sono tutte intrecciate, e solo tenendo tutto insieme ha senso chiedersi ‘dove so io, a che punto, e con quali strumenti teorici e affettivi’ in modo diverso e mai definitivo resisto in questo mondo in rovina (Tsing et al. 2017).

Rispetto al mondo che avevamo di fronte ai nostri occhi quando con Chiara e Manuela ci dedicammo al volume L’amore al tempo dello tsunami (2014), quello di oggi è ancora più violento, in cui il capitale ci porta via la dignità e ci restituisce edonismo, scambia cura con controllo farmacologico e scopico, continua a massacrare gli uccidibili, a sfruttare in modo inimmaginabile alcuni a beneficio del mercato, a privilegiare qualcunx per stabilire gerarchie razziali, di classe, genere, sessualità, cittadinanza e religione a guardia delle quali pone uno Stato trasformato in agente sicuritario contro nemici interni, esterni e del capitale; e infine fa tutto ciò a scapito di un pianeta in cui la vita oltre l’uomo, e la vita degna dell’essere umano sono divenute un bene scarso.

Eppure, oggi noi, insieme a molte altre, sembriamo più corazzate, avendo trovato alcuni strumenti per realizzare (o abbandonare) alcuni desideri e perseguire (o abbandonare) traiettorie che erano a noi care. Probabilmente è il nostro privilegio di bianchezza, cittadinanza e classe che ce l’ha permesso.

Ho continuato a fare ricerca sui temi a me cari, trovando in essa forse il culmine di tutto ciò che è venuta maturando in termini di desideri e aspirazioni – almeno fino ad ora. Lisbona ha dato inizio e accolto questa nuova fase come una bella donna povera e morbida, cocciuta e savia, dai seni grandi e dalle braccia contadine, seduta su sette colli, coi piedi a mollo nel fiume e con il viso verso l’oceano. E sempre baciata dalla luce. Molte cose sono successe di spaventosamente spaventose. Incluso il cancro in famiglia (per fortuna superato), la perdita di tutti gli anziani (e per fortuna erano molto anziani) e la mia menopausa precocissima (e per fortuna le mestruazioni endometriotiche non ci sono più). L’adozione come grande luogo di riflessione, ancora in fieri, in un’attesa che dura ormai da quasi 7 anni. L’amore con l’uomo Luigi, che rimette in gioco e induce a ripensare, ancora una volta, identità, processi di costruzione del sé, traumi. Insieme a tutto ciò è sorto un ripensamento radicale del suo posizionamento intellettuale e accademico in quanto studiosa di razza e bianchezza da un punto di vista femminista: tale ripensamento prende vita da una postura razionale ed emotiva insieme, e si può identificare in un rifiuto radicale dell’estrattivismo accademico (Giuliani 2023). Ne consegue un ripensamento del ruolo che una studiosa etica deve avere dentro e fuori l’università, alla luce della relazione tra sapere e denaro, ossia del circolo mortifero tra messa a valore del sapere degli altri, estrazione di valore da questo sapere per mezzo della ricerca, disciplinamento del sapere radicale per mezzo del frullatore accademico, e, infine produzione accademica di conoscenza disciplinata. Ed è forse per questa ragione che il mio lavoro è sempre più artistico, ‘a tecnica mista’, sfuggente (Giuliani 2020; Giuliani et al. 2020; Giuliani 2022; Giuliani et al. 2022): è il risultato di un troubling, che speriamo mi restituisca ciò che sento di aver perso di fronte all’atomizzazione e alla dis-relazione impostami dal neoliberismo accademico.

Cura e fuga

A distanza di dieci anni, oggi ci troviamo dinnanzi all’inasprimento di due fenomeni interrelati: la ri-femminilizzazione dello spazio privato (e la rifemminilizazione della cura), seguita dallo sconfinamento nel pubblico di tale ri-femminilizzazione che ha effetti deleterei dal punto di vista della rappresentazione e della rappresentanza politica, dell’ingresso e permanenza delle donne nel mercato del lavoro, dello sfruttamento delle donne nere e senza cittadinanza nel lavoro di cura, per non parlare dell’impatto della crociata anti-gender su tutti i soggetti femminilizzati, cisgender e transgender, etero e omosessuali. In questo contesto, la questione della cura come ‘consustanziale’ al soggetto femminilizzato è tornata a adombrare la cultura libertaria e ostacolare qualsiasi progetto di liberazione. Essa, nel pensiero conservatore ed egemonico, è stabilita come obbligo morale e sociale per le donne, e come obbligo morale sociale e razziale per le donne razzializzate. La cura fa male alle femministe bianche, poiché sbandierandola come se fosse scevra da relazioni di potere verticali, ne restano vittime, in un susseguirsi di silenziamenti a catena. La cura fa male alle donne razzializzate, perché vi sono state costrette da sistemi razzisti e patriarcali (hooks 1981) e perché le hanno subordinate ad altre donne (bianche). Queste ultime, tutt’altro che solidali, hanno abusato del loro ruolo di cura (il fardello della donna bianca) e usato il lavoro di cura delle donne nere e migranti per guadagnare un pochino di potere razziale residuale (sempre subordinato a quello maschile e bianco) dentro l’ambito domestico e pubblico (Morini 2001). L’obbligo di cura (a cui per molte è vincolato il permesso di soggiorno) le ha poi strette nella morsa del femonazionalismo (Farris 2017).

È per denunciare la ‘mistica (bianca e postschiavista) della cura’ che Audre Lorde, ripresa poi da Sara Ahmed (due studiose che, non a caso, Liana adorava), ha definito la cura del sé come battaglia per l’autonomia di soggetti genderizzati e razzializzati: “caring for myself is not self-indulgence, it is self-preservation, and that is an act of political warfare” (Lorde 1988, 227). 

Un qualcosa che probabilmente Liana avrebbe letto mettendo insieme la denuncia di Leslie Feinberg (1993) alla mistica dei bambini e l’imperativo di Donna J. Haraway “make kin not babies!” (2015). In poche parole, equivale alla sottrazione dal potere scopico e disciplinante che ti impone, e ti fa pagare per il tuo eccedere, da norme di genere, di razza, di classe e sessuale estremamente violente e pervasive.

La cura del sé è dunque l’esatto contrario di un atto edonistico: è un atto di sottrazione al potere e alle sue imposizioni morali e sociali alla subordinazione (delle donne e dei soggetti femminilizzati per mezzo della cura che devono dare o che devono subire), per non restare solx, ma costruire comunità ‘fragili’, ma solidali e sicure (Ahmed, 25 August 2014). Di questo avevano discusso e scritto anche due cari amici di Liana, rispettivamente Alessandro Zijno che ci ha lasciatx troppo presto, e Alessia (Leo) Acquistapace (2022), al cui lavoro Liana guardava con grande attenzione e affetto.

Per sottrarsi all’assoggettamento tanto quanto alla riproduzione di biopotere, Liana ha fatto scuola: non solo si deve praticare la fuga da tutto ciò che non è etico o che ci sembra non esserlo, ma soprattutto rifiutarsi di ‘imporre’ ciò che si deve pensare e come si deve agire tanto intellettualmente quanto politicamente, nei movimenti e nella vita di tutti i giorni. In linea con Liana, accanto al ‘riconoscimento’ (su cui, con Butler, possiamo dire che si basa l’alleanza dei corpi) vedo sempre associata la legittimità della ‘sottrazione’, che significa mantenere sempre aperta la porta della fuga sia per i ‘corpi in pericolo’ sia per i corpi ‘resistenti’ – che fuggono dal, o non si conformano all’autoritarismo. La sottrazione (silenzio, menzogna e fuga) permette la creazione di uno spazio altro, temporaneamente sicuro, dicono Liana e Ahmed, personale, solidale, trasformativo e collettivo di riflessione e ri-costruzione politica, insieme (quello spazio che tanto i runaway dalle piantagioni schiaviste e coloro che li aiutavano, quanto le forze anticoloniali e x loro sostenitorx internazionalistx, le lesbiche separatiste, le femministe, le persone queer e trans e x loro alleatx hanno sempre identificato come il luogo sia della ‘comunità fragile’, sia della riorganizzazione della rivolta.

In quanto donna che ama, ha amato o amerà critters di tutti i tipi, la cui bianchezza è perciò a volte egemonica, a volte diminuita, ho esperito un mix di strategie di rivendicazione e richiesta di riconoscimento e di sottrazione e opacità, sicuramente reso possibile anche dal privilegio di cittadinanza, classe e capitale culturale che mi contraddistingue. Il fatto di essermi trovata a dover nascondere, tacere, fuggire e mentire per autopreservarmi è un monito a ricordare sempre come del binomio cura-controllo bisogna sempre diffidare. Tale controllo è esercitato sia da parte di chi riceve sia da parte di chi presta cura dentro la famiglia in cui siamo nate, quella a cui ho dato vita e la comunità che mi sono creata. Tutte noi ci siamo dovute scontrare con madri, padri e altri pezzi di famiglia, fidanzati e fidanzate, che operavano il ricatto cura-controllo (come Chiara e le compagne di Sconvegno hanno analizzato all’inizio degli anni Duemila nel contesto del ruolo della famiglia di fronte alla precarizzazione del lavoro universitario e non delle figlie). Ci siamo poi dovute sottrarre anche da forme di controllo, censura, appropriazione e delegittimazione da parte di altre donne – le madri simboliche, nei movimenti e nelle università – che non capivano, non volevano capire, non accettavano la nostra visione generazionale e una pratica femminista diversa – anche radicalmente – dalla loro. Alcune volte queste forme di appropriazione e delegittimazione nei nostri confronti hanno coinciso anche con le forme di estrattivismo e silenziamento tipiche del femminismo bianco verso le esperienze vissute e le forme di lotta delle donne razzializzate, dando vita ad una catena di violenze doppie e triple, subite ed esperite allo stesso tempo e, a volte, persino dalle stesse persone.

Trasferiamo ora questo ragionamento sul terreno del rapporto con le istituzioni. Mi trovo d’accordo con la rivendicazione secondo la quale la cura è un bene comune che dovrebbe essere redistribuito senza produrre ulteriore vulnerabilità e dipendenza, ma fornendo le basi di una vita degna per tuttx, come molte compagne e amiche hanno rivendicato (penso a Stefania Barca 2020, a Miriam Tola, a Maddalena Fragnito 2021 e alle compagne britanniche del Manifesto per cura 2021). D’altra parte, riconosco ancora una volta che lo Stato ha sempre usato la cura per controllare i corpi (specialmente delle persone fuori dalla norma razziale, di genere, sessuale, culturale, fisica etc.). Di fatto, è nella natura dello Stato in quanto frutto della concentrazione di potere e violenza su vite e cose, funzionare come dispositivo di addomesticamento o eliminazione più o meno violenta di ciò che è eccedente o conflittuale. Ancora di più oggi, poi, in uno contesto in cui lo Stato ha rinunciato definitivamente ad essere protettore di bene comune per diventare esclusivamente secondino del capitale e di visioni politiche conservatrici e a favore della diseguaglianza.

Di fronte a questo potere che è sia smaccato sia subdolo (neoliberale e autoritario allo stesso tempo) il silenzio, persino la menzogna, e la fuga devono essere rivendicate come forme di autopreservazione: la cura del sé, in modo simile a ciò che Edouard Glissant ha definito opacità (1990), rappresentano la traduzione intersezionale (in quanto fuga dalle intersezioni di etero-sessismo, razzismo e colonialismo) del concetto lesbofemminista di “sottrazione”. Senza paragonare la mia lotta a quella delle persone sottoposte ai regimi patriarcali intersezionali più violenti, allx persone più marginali, allx subalternx coloniali, allx schiavx e a tuttx quellx che soffrivano e soffrono della violenza cieca del potere e che hanno messo in pratica nei secoli la ‘sottrazione’ al potere sui corpi -, riconosco di sapere bene cosa significhi fuggire. Sebbene le forme di silenzio, menzogna, fuga che ho condiviso con le mie compagne di vita e di lotta raramente hanno avuto l’obiettivo di salvarci la pelle, poiché nessuna di noi si è trovata mai nella condizione di esposizione estrema alla violenze e alla morte, soprattutto grazie alla nostra cura reciproca, ci siamo trovate ad esercitare sottrazione e cura del sé in molti momenti. Il controllo dell’istituzione ‘che presta cura’ è quello che nel mio caso, mi ha portata, ad esempio, a dire mezze verità (a esercitare opacità) per adeguarmi allo script che misurava la mia affidabilità come genitore adottivo: per poter passare la selezione, ho dovuto dunque dichiarare a psicologa e assistente sociale la mia sessualità etero-normata, di condurre una vita tranquilla e morigerata, di avere posizioni politiche moderate e di correre pochi rischi. In termini di cura del sé, mi sono presa così cura del mio desiderio di maternità, venendo meno allo script normativo assegnato alle donne (sapevo di mentire, esercitando così una forma di agency), e alle imposizioni moraliste del patriarcato incarnato nello Stato. 

D’altra parte, come non riconoscere l’importanza di un dialogo costante con le istituzioni al fine della giustizia sociale – e banalmente di una vita più facile e degna per tuttx? E allora, se ci sottraiamo alla violenza dello Stato, allo stesso tempo non ci sottraiamo alla lotta per la trasformazione sociale e istituzionale, una lotta che tende ad affermare l’illegittimità della guerra, l’orrore del patriarcato, dello sfruttamento coloniale e della violenza capitalistica, insieme all’idea che l’istituzione pubblica deve essere fondata su di una concezione universale della cittadinanza e della protezione sociale, sul diritto all’integrità fisica, al rispetto e alla vita degna qualsiasi cosa significhi, così come alla scelta di abortire, transitare o morire, alla fuga e alla migrazione verso ovunque la vita sia più facile e serena, sul diritto al ‘riconoscimento’ dei propri affetti e, in generale, della propria irriducibile favolosità. 

Cura di Gaia

Infine – come Liana ben insegnava in modo lucido, generoso e favoloso, e soprattutto precorrendo tutti i tempi, in Italia – la critica del concetto di cura mediante il concetto di cura del sé diviene ancora più produttiva se associata trans-corporealmente e intra-attivamente all’idea di cura ‘per Gaia’. 

Non si tratta dell’invocazione, a me poco avvezza, a nuove mistiche planetarie. Si tratta piuttosto del contributo a una battaglia politica “per l’esistente” (Haraway 2016; Tsing 2018) e per la decrescita (Haraway 2016; Barca 2020) alla luce dell’interdipendenza tra esseri animati e non, e alla luce di un progetto di giustizia di fronte alla Storia di violenza antropocenica di alcuni uomini su altre umanità negate, sulle loro epistemologie, e sull’ambiente animato e inanimato che le nutre. La cura per il pianeta come ecosistema interdipendente è presa in consegna da Liana e da chi da queste teorie fa discendere le proprie pratiche, nelle sue diversità inestinguibili, e nella bellezza e favolosità dell’esistente (contro qualsiasi apologia e mistica del materno e della cura) – nel senso di una decrescita demografica ed economica progressiva che permetta all’umanità di godere delle forme di vita, di pensiero, epistemologiche e inorganiche che sostengono intra-attivamente e interdipendentemente la vita di tuttx nel presente. 

In tutto ciò c’è un grande paradosso. In linea con molte e molti studiosi, crediamo profondamente che quando Noi ci saremmo autodistruttx, in questa corsa all’accumulazione di ciò che resta di fronte alla catastrofe antropocenica (Vergès 2017), la Terra, Gaia, rinascerà, senza di noi (Sagan 2017, 174; Stengers 2008). La paura degli umani di ‘finire’ materializza un appello al pianeta che proietta su di esso l’urgenza del fare qualcosa per ‘salvarsi’ (Chakrabarty 2008).

Nel frattempo,

Practices of knowing and being are not isolable; they are mutually implicated. We don’t obtain knowledge by standing outside the world; we know because we are of the world. We are part of the world in its differential becoming. The separation of epistemology from ontology is a reverberation of a metaphysics that assumes an inherent difference between human and nonhuman, subject and object, mind and body, matter and discourse. (Barad 2007, 185)

Thinking across bodies may catalyze the recognition that the environment, which is too often imagined as inert, empty space or as a resource for human use, is, in fact, a world of fleshy beings with their own needs, claims, and actions. By emphasizing the movement across bodies, trans-corporeality reveals the interchanges and interconnections between various bodily natures. (Alaimo 2010, 2)

Si tratta di riconoscere un “trans-corporeal system of accountability and mutual implications (Alaimo 2010, 2016) that precede intra-actively the formation of subjects and objects (Barad 2008)” (Giuliani 2021, 164) e che fa degli umani esseri non-autosufficienti (Haraway 1992) come assunto alla base del nostro progetto politico femminista di lotta per la giustizia, la responsabilità e il rispetto. Una lotta che per questo è necessariamente anticapitalista, anticoloniale e anti(etero)patriarcale e che deve essere intrapresa non solo contro le manifestazioni di questi tre sistemi di oppressione a livello macro, ma anche e soprattutto a livello micro: è nelle micropolitiche della riproduzione dell’assoggettamento e dell’estrazione di valore materiale e simbolico che si insidia la riproduzione discorsiva e il sostentamento materiale a tali sistemi. 

Contro le micropolitiche della vulnerabilità e dello sfruttamento, l’autoritarismo e le battaglie per l’egemonia suicida, e, infine, le mistiche dell’oppressa, della cura e della femminilità che le sostengono, invoco e mi accodo ad una battaglia contro la sussunzione neoliberista di energie collettive radicali per la riproduzione del capitalismo razzializzato e alla costruzione di alleanze consapevoli contro passati, presenti e futuri Capitaloceni razzisti e Plantazionoceni (Haraway 2015 e 2016; Vergès 2017; Yusoff 2018). Queste alleanze si basano sulla “skin-to-skin proximity” (Ahmed 2004) e dunque sul riconoscimento dei “pluriversi” esistenti (Khotari et al. 2019) tanto quanto del diritto all’opacità (Glissant 1990), alla menzogna (Fanon 1952) per sfuggire al potere e alle sue ‘ragioni’; sul riconoscimento di qualsiasi forma di resistenza e ricombinazione contro il potere assoggettante (Barbarulli e Borghi 2006; Borghi 2014; Giardino dei Ciliegi 2018); sulla pratica della cura, condivisione, responsabilità, rispetto e cura del sé alla base delle “comunità fragili” (Ahmed 2014). 

Queste comunità, in quanto tali, possono dar luogo a spazi sicuri da cui combattere frontalmente e a latere la violenza. Esse sono finalizzate alla crescita di un Noi, che è ‘per tutti’ e ‘tutt’e cose’ (come lo è il femminismo – hooks 2000 – e tutte le pratiche politiche trasformative anticapitaliste, libertarie e anticoloniali), che non è gabbia scopica né è silenziante, ma che dai margini (passando per i molti centri e i molti altri margini) intesse nuove trame e riconosce le interdipendenze, come Liana avrebbe ribadito.

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Troubling Liana. In memoriam di Liana Borghi di Gaia Giuliani 
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