EDIZIONE DEL13.03.2022 il manifesto

Marco Revelli, Il potere di contagio della guerra e la verità della memoria

Opinioni. Stiamo con gli aggrediti e i più deboli. Per ridurre le sofferenze dei civili e per la fine del conflitto. Mandare armi dove ce ne sono già troppe non serve né all’uno né all’altro scopo

La guerra contiene in sé l’infinita potenza del negativo. Con un altrettanto infinito potere di contagio. Dovremmo saperlo, ma lo dimentichiamo sempre: non si limita a distruggere vite e mondi. Corrompe e contamina occupando le menti e le anime con la propria logica perversa. Ha le caratteristiche che Gustav Jung attribuiva all’archetipo germanico di Wotan – il Capo della caccia e l’Ospite Furioso che irrompe della casa dell’Io e lo stravolge -, definendo “questo fenomeno generale come Ergriffenheit, uno stato di rapimento o possessione”. Resisterle è difficile.

Forse solo chi l’ha conosciuta davvero, ne ha provato l’orrore “col corpo” – chi ha visto il volto di Medusa, direbbe Primo Levi -, riesce a sottrarsi fino in fondo alla cattura (a non lasciarsi “pietrificare dentro”). Probabilmente per questo, nel frastuono mediatico in cui siamo precipitati dal 24 di febbraio, con l’aggressione russa all’Ucraina, i pochi capaci di parlarne con un barlume di “coscienza di causa” sono quei militari (penso al generale Fabio Mini, ad esempio) che sono stati effettivamente in uno “scacchiere di guerra” a differenza di troppi professionisti dell’informazione o della politica.

Personalmente questa lezione l’ho dovuta imparare da mio padre Nuto, che l’essenza della guerra dovette “viverla” nel punto più terribile della ritirata di Russia, nel gennaio del ’43, nella piana di Nicolaevka, in quella che chiamerà la “notte dei pazzi”, quando – scriverà – “capì tutto”: la vergogna del fascismo, lo sfacelo dell’esercito, il tradimento del Re, la lontananza di una patria indifferente e corrotta, guidata dai retori dell’”armiamoci e partite”. Soprattutto l’orrore irredimibile della Guerra.

La verità indicibile che gli avevano rivelato i suoi alpini, montanari costretti a diventare soldati, e cioè che in guerra, in ogni guerra, è sempre la povera gente a pagare il prezzo più caro. Sono loro, e non quelli che le guerre le decidono e le comandano (o magari anche solo le commentano), a subirne sofferenze e conseguenze.

Scrivo questo perché quella memoria famigliare sepolta nella mia infanzia col suo carico di tragedia mai veramente superata, mi è ritornata fuori d’improvviso all’esplodere di questa nuova guerra, combattuta negli stessi luoghi di quella di allora, con gli stessi nomi che ritornano. Un’emozione nuova su un materiale emotivo vecchio, una lacerazione in più rispetto a quelle che la cronaca quotidiana infligge a tutti oggi. E mi chiedo come far tesoro della lezione di allora per affrontare i dilemmi di oggi. Come tentare quantomeno di evitare che gli errori e le sofferenze di allora si sommino con (gli stessi?) errori e sicuramente le stesse sofferenze di oggi.

Credo che il primo pensiero, per chi intenda resistere alla possessione di Wotan, sia l’obbligo morale, civile e politico di fare il possibile (e anche l’impossibile) per impedire che la guerra scoppi (e su questo interroghiamoci se davvero Europa e Occidente sono innocenti). Ma soprattutto, e a maggior ragione, una volta sciaguratamente scoppiata, per impedire che si estenda e incrudelisca.

Non si tratta qui di decidere “da che parte stare” tra aggrediti e aggressori, tra più deboli e più forti: si sta con gli aggrediti e i più deboli, con buona pace dei manifestanti fiorentini che denunciano il pacifismo “equidistante”. Ma di scegliere, consapevolmente, “come stare”. Con quali forme e quali mezzi, al fine di ridurre al minimo le sofferenze della popolazione e di avvicinare il più possibile la conclusione del conflitto. Mandare armi là dove ce ne sono già troppe (e ne vediamo purtroppo i tragici effetti) non serve né all’uno né all’altro scopo.

Significa gettare benzina su un fuoco che occorrerebbe invece spegnere prima possibile; alzare un livello di scontro che ci si dovrebbe sforzare di abbassare. Rischiare di allargare i confini di un conflitto che si dovrebbe invece limitare, finendo per coinvolgervi gli stessi che dovrebbero svolgere il ruolo di mediatori. Confondere un’onorevole mediazione con la “perdita dell’onore” è pessima retorica, foriera di rovine.

Ha ragione Donatella Di Cesare quando ci invita a scegliere se vogliamo “aiutare il popolo ucraino aggredito” o “fare la guerra a Putin”, perché le due cose sono in contraddizione. La seconda opzione (combattere contro un nemico usando, peraltro, i corpi degli altri) significa, come è stato ferocemente detto “rendere lo scontro sempre più sanguinoso” fino al rischio estremo. La prima implicherebbe compiere ogni possibile sforzo per favorire un negoziato accettabile per entrambe le parti in una prospettiva di pace onorevole. Personalmente non ho dubbi.

Infine un’ultima implorazione: per favore non si usi il paragone con i “partigiani” per sostenere la linea dell’”armiamoli a casa loro”, fuori luogo e fuori contesto come ha ben messo in chiaro Alessandro Portelli su queste pagine, utile solo a sopire i sensi di colpa per la propria passata e presente impotenza.

Allora, purtroppo, la guerra mondiale era da tempo scoppiata, la lotta partigiana appariva una scelta difficile ma non disperata, e soprattutto il grosso degli armamenti proveniva dallo scioglimento del regio esercito o veniva conquistato con colpi di mano.L’uso propagandistico della storia, giocato sulla cancellazione delle specificità di contesto e sull’eticizzazione simbolica di fatti tra loro diversi ricondotti a un unico, semplificato, effetto emotivo, non ci aiuta certo a resistere alla vertigine dalla guerra. Anzi.

//////https://www.adnkronos.com/donatella-di-cesare-se-in-europa-non-ce-la-pace-perpetua-ci-sara-nei-cimiteri_4dpJkDPoLIdHqQ4lxMbzcu

Guerra Ucraina-Russia, Di Cesare: “Non si aiutano ucraini dandogli armi”

04 marzo 2022 | 11.26

Donatella di Cesare

Non si aiutano gli ucraini armandoli: è semplicemente questa la mia posizione. E l’Europa, che celebra una riunificazione in armi, in realtà nasconde il proprio fallimento”. Parlando con l’Adnkronos, è netta la filosofa Donatella Di Cesare nel sottolineare le proprie “posizioni pacifiste, ci tengo moltissimo a dirlo e a esserlo”, anche nei confronti di una guerra raccontata attraverso una narrazione semplicistica: l’idea che tutto sia iniziato con l’invasione russa. Certo, chi non condannerebbe la Russia partendo soltanto da questo ‘antefatto’? Invece, bisognerebbe indagare un po’ più in profondità, andare indietro nel tempo, a prima della guerra, a cosa l’ha determinata”, aggiunge la professoressa di filosofia teoretica dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma, molto criticata dopo le sue affermazioni di ieri sera a ‘Piazza Pulita’ su La7.

Ciò che mancano e invece servirebbero, secondo la Di Cesare, sono “le voci della politica e della diplomazia che chiedano la pace: un’unificazione in armi, infatti, è una sconfitta e non la vittoria tanto celebrata dell’Europa. Vivo con dolore e angoscia le vicissitudini degli ucraini, ma penso che non si possa aiutare il popolo con le armi o mandando legionari. Non mi sarei mai aspettata una simile presa di posizione da parte dell’Italia e della Germania, non solo per la loro dipendenza energetica dalla Russia, ma anche per i legami culturali e politici che nel tempo avevano creato. Penso ad esempio al convegno su Kant a Kaliningrad (l’ex città di Königsberg, dove il filosofo tedesco era nato) in programma per il prossimo anno e che è stato annullato: un fatto grave quanto la cancellazione a Milano del corso su Dostoevskij di Paolo Nori. Evidentemente anche i morti fanno paura”.

A proposito di Kant, conclude, “mi viene in mente uno dei suoi testi più importanti, ‘Per la pace perpetua’, opera dal titolo ambiguo, che gioca con il riferimento alla quiete dei defunti nei camposanti. Se non ci sarà la pace perpetua in Europa, se la diplomazia non tenta di sostituirsi alle armi, ci sarà quella perpetua nei cimiteri”.

//// il manifesto 11/03/2022

Alessandro Portelli  

Perché è sbagliato il paragone con la Resistenza

Ho letto l’articolo di Luigi Manconi sulla moralità della resistenza in Ucraina e sulla giustezza di mandare armi. Non sono d’accordo (con Manconi non mi capita quasi mai) ma riconosco le ragioni e la serietà e ci penso. Vorrei che anche chi è d’accordo riconoscesse e rispettasse le mie, che non riguardano certo la moralità della resistenza – in Ucraina come in Italia o in Kurdistan – ma la difficoltà di un paragone storico fra tempi e contesti molto diversi. Forse anche per questo l’Anpi, che di Resistenza qualcosa sa, la pensa diversamente.

Quando gli alleati fornivano armi ai partigiani, infatti, erano già in guerra con la Germania; non solo, ma quella guerra la stavano vincendo e, particolare non secondario, avevano già «gli stivali sul terreno» in Italia, ed erano loro, non gli invasori tedeschi, che bombardavano le nostre città occupate col fine di far durare di meno la guerra.

Quindi il paragone regge solo se:

  1. pensiamo di essere già in guerra con la Russia;
  2. pensiamo di vincerla militarmente;
  3. pensiamo che l’invio di armi abbrevierà il conflitto anziché prolungarlo, incaricando gli ucraini di fare la guerra con le nostre armi per nostro conto.

Ho nominato il Kurdistan. Non credo che ci fossero dubbi sulla moralità della resistenza nel Rojava. Però non solo non gli abbiamo mandato armi, ma mentre paragoniamo chi si arruola per combattere col battaglione Azov alle Brigate Internazionali di Spagna, gli italiani che sono andati a combattere nel Rojava li teniamo sotto sorveglianza di polizia perché possibili minacce all’ordine pubblico. È vero che il Rojava non stava «nel cuore dell’Europa»: stava in Turchia, paese nostro alleato, nel cuore della Nato, portatore dei nostri valori occidentali.

Manconi non lo dice e non credo che lo pensi, ma metterla in termini di moralità rischia di bollare come immorale chi la pensa in altro modo.

Abbiamo troppo interiorizzato una mentalità antagonistica e non dialogica: sì green pass o no green pass, o servi di Putin o servi della Nato, o di qua o di là e chi sta di là è un nemico immorale.

Siamo tutti convinti che l’aggressione deve finire e si deve raggiungere un compromesso. Discutiamo e litighiamo fra noi sui mezzi per arrivarci ma non dimentichiamo ciò che unisce e rende possibile parlarsi. E ascoltarsi.

////https://volerelaluna.it/rimbalzi/2022/03/05/la-guerra-in-ucraina-e-il-nuovo-scontro-di-civilta/

RIMBALZI

La guerra in Ucraina e il nuovo scontro di civiltà

05-03-2022 – di: Ida Dominijanni

All’alba del nono giorno di guerra l’attacco delle truppe russe alla centrale nucleare Zaporizhzhia rende meglio di qualunque altro dettaglio quale sia la posta della partita globale, biopolitica prima che geopolitica, che si sta giocando in Ucraina. E il peggio deve ancora venire, ha comunicato Macron cui Putin ha fatto presente che non intende fermarsi finché non avrà conquistato l’intero paese. Le regioni russe dell’est e del sud con gli accessi al mare sono ormai in mano ai russi, a Mariupol mezzo milione di abitanti sono intrappolati senza acqua e senza cibo, a nord-ovest Leopoli è piena di profughi in fuga, più donne e bambini che uomini perché gli uomini restano a combattere una battaglia di resistenza già persa. L’esile negoziato in corso a Brest ha deciso l’apertura di corridoi umanitari per favorire l’esodo dei civili, mentre la colonna di 60 kilometri di carri russi continua la sua lenta ma inesorabile avanzata su Kiev lungo il corso del Dnepr che in futuro potrebbe dividere l’Ucraina fra un est russo e un ovest occidentale, com’era un tempo la Germania: le stesse cose ritornano sempre, nella storia, come il rimosso nell’inconscio. 

Dev’essere per questo che tutti definiscono questa in Ucraina “la prima guerra nel cuore dell’Europa dopo più di settant’anni”, dimenticando clamorosamente che in Europa la guerra era già tornata negli anni Novanta, in quella ex Jugoslavia che ha anticipato e prefigurato tutte le guerre successive a base etnico-nazionalista sparse per il mondo. Forse che la Jugoslavia non era il cuore ma la periferia dell’Europa? O non sarà piuttosto che nell’immaginario europeo, il cuore dell’Europa resta sempre lì, al confine fra l’ex impero sovietico e l’Occidente democratico? Lì, dove secondo gli stessi che nell’89 decretavano “la fine della storia” oggi la storia riprenderebbe in grande, quasi che in mezzo non ci fosse stato niente. Lì, dove si sono convocati tutti i fantasmi che fino a ieri l’altro vagavano per l’est e per l’ovest, e che ora muovono questa terribile resa dei conti di un trentennio cominciato male e finito peggio. Che è la vera posta in gioco, reale e simbolica, della tragedia che si sta consumando.

Hanno suscitato indignazione e scandalo i due discorsi del 21 e del 24 febbraio con cui Putin ha annunciato prima il riconoscimento ufficiale delle repubbliche separatiste del Donbass e poi la sua “operazione militare speciale”, come l’ha chiamata lui, in Ucraina. Ne consiglierei tuttavia la lettura integrale (il testo è facilmente reperibile in rete), ammesso che sia ancora lecito cercare di capire perché accade quello che accade senza essere tacciati di connivenza con il nemico. Liquidati dai più come una litania del risentimento, o come il delirio paranoico da *sindrome di accerchiamento di un uomo solo al comando provato dalla fobia del Covid, i due discorsi inanellano alcuni dati di fatto incontrovertibili sull’estensione a est della Nato, sulle guerre di aggressione perpetrate dall’Occidente dagli anni novanta in poi (Kosovo, Iraq, Siria, Libia), e, più in generale, sullo “stato di euforia da superiorità assoluta, una sorta di assolutismo di tipo moderno, per di più sullo sfondo di un basso livello di cultura generale” che si è impossessato del campo dei vincitori della Guerra fredda. Ma al di là di questo merito, nonché della ricostruzione delle cause di lungo periodo della rinascita dei nazionalismi, a Est dopo la fine dell’Urss, ciò che colpisce nelle parole di Putin è la rivendicazione della dimensione storica come sfondo ineludibile del discorso politico. Precisamente lo sfondo che manca al discorso politico occidentale, che di spessore storico sarebbe supposto essere il più dotato. E che invece risponde all’aggressione di Putin usando – mirabile sintesi di un cinquantennio di ideologia neoliberale – solo il linguaggio dell’economia e della sicurezza: sanzioni e riarmo, nell’oblio – perfino teorizzato, come nel discorso alle camere di Mario Draghi – del passato che ha costruito, mattone dopo mattone, il presente.

Sia chiaro: lo sfondo e l’uso della storia non giustificano in alcun modo la mossa di Putin. L’invasione di uno Stato sovrano e confinante viola le basi del diritto internazionale, resuscita, a proposito di storia lunga, tutti i mostri del passato europeo, e si configura per di più, nelle stesse motivazioni che Putin ne dà, come una sorta di preemptive war, una guerra preventiva contro il pericolo eventuale di un’aggressione alla Russia da parte della Nato (i nemici assoluti sono spesso segretamente gemelli, e Putin evidentemente ha imparato qualcosa da George W. Bush). Nessuna ragione di lungo periodo esenta di un grammo di responsabilità la decisione con cui il presidente russo ha portato il mondo sull’orlo del precipizio. Ma pare assai improbabile che dal precipizio le democrazie occidentali possano uscire senza aprire al proprio interno tre linee di ripensamento autocritico di un passato prossimo che invece tendono solo a rimuovere o a riconfermare.

La prima linea riguarda l’atroce sequenza di guerre con cui l’Occidente ha insanguinato l’epoca di pace che aveva annunciato alla fine della Guerra fredda, e che rischiano di costituire i precedenti formali, non solo le concause politiche, dello scenario che si va prefigurando in Europa. Dovrebbe balzare agli occhi l’analogia agghiacciante fra le motivazioni addotte da *Putin a sostegno della minoranza russa in Ucraina e quelle che mossero il cosiddetto intervento umanitario della Nato a sostegno della minoranza kosovara in Serbia, con relativo bombardamento di Belgrado: e invece non un cenno se ne sente in specie nel Pd, erede del partito che fu il principale regista italiano di quella guerra, oggi abitato da una classe dirigente che sembra del tutto ignara della drammaticità di quella stagione e del tutto conforme alla narrativa trionfale del dopo-’89. Dovrebbe risuonare come un monito sullo stato delle democrazie occidentali la madre di tutte le fake news e di tutte le post-truth politics, ovvero la *gigantesca menzogna sulle presunte armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein che giustificò la “guerra preventiva” in Iraq. Soprattutto, dovrebbe portare un grammo di senno, questo sì preventivo, sullo scenario europeo prossimo venturo la scia di guerre civili, regimi instabili ed esodi migratori biblici lasciata dietro di sé dall’intera sequenza delle guerre post-89, tutte caratterizzate dall’intreccio micidiale di rivendicazioni nazional-sovraniste e rivendicazioni etnico-regionali che si ripropone oggi in Ucraina e rischia di riproporsi in un teatro europeo più vasto di quello ucraino. E invece è proprio nella ripetizione nevrotica di quella dinamica che ci stiamo infilando, con il corredo sinistro di un soccorso armato alla resistenza ucraina fatto di contractors, appalti, privatizzazione dell’uso della forza – un film, anche questo, già visto in Iraq e in Siria, con le conseguenze che sappiamo.

La seconda linea di riflessione autocritica riguarda lo stato delle democrazie occidentali e quello connesso della costruzione europea. Oggi siamo tutti dalla parte dell’Ucraina, vittima di un’aggressione inammissibile, e da questa parte bisogna restare finché i carri armati russi resteranno in campo. Ma nella retorica monotonale occidentale l’Ucraina è diventata in pochi attimi la trincea della difesa della democrazia tout court, anzi, per dirla con le parole di Joe Biden nel suo discorso sullo stato dell’Unione, la trincea del conflitto fondamentale del nostro tempo, che sarebbe quello fra democrazia e autocrazia. Le élite democratiche americane sono impegnate da tempo a costruire questo frame narrativo, opposto e speculare all’attacco alla liberaldemocrazia occidentale portato avanti dalla concezione putiniana della cosiddetta “democrazia sovrana”. E se nella politica interna americana questo frame è servito a sconfiggere Trump, in politica estera è destinato a prendere il posto di quello sullo “scontro di civiltà” fra Occidente e Islam che ha tenuto banco per tutto il ventennio della war on terror successivo all’11 settembre. Ma dopo Trump, gli americani non possono non sapere che la linea di confine fra democrazie e autocrazie è diventata molto esile, e può essere scavalcata dagli autocrati che crescono all’interno delle democrazie occidentali, non soltanto al di fuori di esse. E noi europei non possiamo non sapere che le tentazioni autocratiche e sovran-populiste sono cresciute, soprattutto ma non solo nei paesi ex-sovietici dell’est, parallelamente ai processi di crisi e de-democratizzazione dei paesi dell’ovest, e sovente per reazione alla delusione di un allargamento a est dell’Unione rivelatosi più un’annessione alla religione del mercato che un’integrazione del mosaico di culture e tradizioni del vecchio continente. Anche da questa parte dell’oceano, il pericolo autocratico non viene solo dall’esterno, e la democrazia non può essere impugnata come una bandiera senza macchia e senza peccato.

Questo nodo lega il trentennio che abbiamo alle spalle al presente e al futuro dell’Unione europea e della sua collocazione nello scacchiere globale. Il rilancio dell’atlantismo da parte di Joe Biden appariva molto ambivalente già all’indomani della sua elezione: mentre riavvicinava le due sponde dell’Atlantico che Trump aveva allontanato, innalzava un nuovo muro fra l’Europa e le autocrazie orientali, chiamando la Ue a posizionarsi nettamente contro di esse. Già allora le voci più consapevoli spinsero infatti per un’Unione atlantista ma aperta verso Est e capace di porsi come ponte fra gli Stati uniti, la Russia e la Cina. Complice la fine del cancellierato di Angela Merkel, nonché verosimilmente l’insediamento del governo Draghi in Italia, le cose hanno preso purtroppo un’altra piega. E oggi è più che inquietante il coro *mainstream di soddisfazione che si leva per un compattamento europeo che fa propria la parola d’ordine americana del nuovo scontro di civiltà fra Occidente e Oriente, e avviene tutto sotto l’insegna della Nato, di sanzioni durissime che colpiranno Putin ma affosseranno la transizione energetica europea, di una politica di pura potenza, di un riarmo di cui la Germania si fa protagonista e che travolge persino la neutralità storica di paesi come la Finlandia.

Se si rafforza in questo modo, dopo aver clamorosamente mancato tutte le possibilità preventive di disinnescare politicamente la miccia che Putin stava accendendo, l’Unione europea finirà col fare le spese del ridisegno dell’ordine globale che si sta giocando nella guerra fra l’imperialismo russo e il nazionalismo ucraino. Se in Ucraina non cessa il fuoco e l’Europa non inverte la rotta imboccando la strada della smilitarizzazione, il conflitto si estenderà in modo imprevedibile e i tempi si faranno durissimi per la specie umana. Se le democrazie si compatteranno al loro interno sulla base dell’ennesima proclamazione dello stato d’emergenza, come già sta avvenendo in Italia, la credibilità della democrazia subirà un ennesimo e fatale colpo. Come sempre e mai come oggi, per incidere sullo scacchiere geopolitico il pacifismo deve alimentarsi di un conflitto politico aspro dentro casa, in primo luogo contro la militarizzazione del dibattito pubblico.

Dominijanni

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *