tratto da Archivi dei sentimenti e culture femministe dagli anni Settanta a oggi, a cura di C. Barbarulli e L. Borghi, Firenze, Edizioni dell’Assemblea/Consiglio regionale toscano, 2015

Intersexioni:
movimenti imperfetti dallesbismo al queer

ELENA BIAGINI

Negli ultimi anni il diffondersi di un posizionamento che potremmo
definire queer/trans-femminista rischia di contribuire, nei fatti, a una
nuova fase di invisibilizzazione del lesbismo o, comunque, di relegare,
nel discorso di movimento, il posizionarsi come lesbiche in un ambito
esclusivamente mainstream, di farne un’ opzione identitaria, istituzionalizzata,
racchiusa nella conformità alla binarietà di genere. Al contrario
ancora oggi possono risultare utili il pensiero e le pratiche radicali del
lesbismo di cui in questo intervento vorrei ripercorrere alcune tappe,
alcuni slogan, alcune lotte, in specifico quelli costruiti sulla destrutturazione
del binarismo di genere o, comunque, sulla fuga da questo, e sulla
resistenza alla ruolizzazione. L’obiettivo di questo contributo è quindi
mettere in luce il ruolo del lesbismo di barriera ai processi di naturalizzazione
e essenzializzazione.
Questo intervento, che non ha pretese di ricostruzione storica generale,
torna soprattutto agli anni Settanta e Ottanta, negli USA, in Europa e in
Italia, riattraversando il pensiero di Radicalesbians, Anne Koedt, il Combahee
River Collective, Monique Wittig, Adrienne Rich, Audre Lorde,
arrivando agli anni Ottanta, “mitico” decennio del lesbismo italiano, in un
continuo dialogo con il presente.
La lotta contro la vera ideologia del genere – non certo quella propagandata,
con un completo capovolgimento della realtà, dalla nuova ondata di integralismo
religioso di Manif pour tous e delle Sentinelle in piedi (Garbagnoli
2014) per attaccare le soggettività lgbtiq, bensì il sistema teso a imporre
come naturali una binarietà ruolizzante e gerarchizzata e come obbligatoria
l’eterosessualità – viene condotta dal lesbismo militante attraverso
il rifiuto di visioni biologiste e/o essenzialiste, attraverso l’articolazione di
lotte contro famiglia, maternità, ruolizzazione tout court, e attraverso il disvelamento
della costruzione di dispositivi di oppressione che connettono
genere, razza1 e classe.

Nei tentativi di decostruzione femminista del genere, possiamo risalire
all’ affermazione di Simone De Beauvoir “Donne non si nasce, si diventa”
(1949) che ha il grande merito di operare una rottura con i testi medici,
medico-legali e psichiatrici del XIX secolo. Ma De Beauvoir accetta lo
statuto di naturalità dell’ eterosessualità, per mettere in discussione la quale
c’è bisogno che nasca un movimento delle lesbiche: durante la seconda
ondata del femminismo, l’emersione di una soggettività lesbica mostra che
non vi è alcuna concreta “esperienza della donnà’ da cui partire per costruire
conoscenza; le vite delle donne attraverso lo spazio e il tempo sono
così diverse che è impossibile generalizzare, non si può parlare di donna
al singolare, non si può averne una visione determinata dalla biologia e
da un ruolo che viene dato come naturale. L’irrompere della questione lesbica
è una vera irruzione quella della lavander menace2 – è di per sé un
contributo a uscire da posizionamenti essenzialisti che agisce contemporaneamente
all’ emergere della questione delle nere nel movimento. Forte,
infatti, è la “spallata” delle nere – femministe e lesbiche – e in particolare
del Combahee River Collective, le cui militanti affermano l’ineluttabilità
della lotta simultanea su più fronti (sesso, lesbismo, razza, classe), e quindi
rompono l’asserzione de “la” donna; la loro critica è a tutto campo, contro
la “sorellanza” naturalista-razzista di una parte del movimento femminista
dell’ epoca, contro la politica sessuale naturalista-nazionalista-patriarcale di
una parte del movimento nero, ma anche contro l’ omofobia/lesbofobia, il
rischio identitario e l’antisemitismo presenti nei movimenti (da cui non
erano esenti neanche molte femministe nere).
Nella critica lesbica, posta nel 1970 dalle3 Radicalesbians con il documento
“La donna che si identifica con le donne”, le pastoie dell’ essenzialismo
non sono del tutto sgominate visto che il documento analizza “chi è la
lesbicà’, come sottolinea Rich; ma è comunque un’analisi che propone la
contrapposizione alla ruolizzazione di genere e alla naturalizzazione del
genere stesso: le lesbiche, come le femministe, aspirano ad essere libere,
non definite né confinate nella loro appartenenza sessuata. Già nel 1970
infatti, Anne Koedt sul numero speciale di Partisans, Libération des Femmes,
Année Zéro, che pubblica la traduzione di “The Myth of the Vaginal
Orgasm”, elenca gli apporti lesbici al femminismo: quello fondamentale è
giustappunto aver chiarito che la biologia non determina i ruoli sessuali. Il
testo di Koedt, già pubblicato a New York nel 1968, propone un tema del
tutto analogo a “La donna vaginale e la donna clitoridea” (1971) di Carla
Lonzi e Rivolta Femminile e, “se Carla Lonzi non ha un posto preciso nella 

storiografia del movimento lesbico italiano [ … ], non avendo mai posto il
lesbismo a fondamento delle sue riflessioni”, tuttavia è per lo meno possibile
apprezzare “l’esistenza, nella ‘nebulosa di rapporti’ tipica del femminismo
degli anni ’70, di legami, contaminazioni e passaggi – quanto meno a
livello individuale – tra Rivolta, il movimento omosessuale e quello femminista
lesbico” (Milletti e Pintadu 2012: 69). Per entrambe le letture,
quella di Koedt e quella di Lonzi, che nel loro contesto furono dirompenti
per le lesbiche in forza della teorizzazione dell’ autonomia dell’ eros delle
donne, la sessualità femminile non solo viene negata e repressa ma anche
costruita: “le donne sono state definite sessualmente nei termini di ciò che
piace all’uomo”. Koedt arriva a sancire che fissare l’orgasmo nella clitoride
è una minaccia per l’istituzione dell’ eterosessualità, Lonzi coglie l’esistenza
di un legame tra subordinazione sessuale e sociale: l’orgasmo vaginale,
mito maschile, impone determinate caratteristiche collegate al genere femminile
(la dipendenza dai maschi, la passività, l’istinto materno) costruite
come sane e innate.
Demistificazione della naturalità di genere, sesso e ruoli aprono la strada
a un’ analisi approfondita dell’ eterosessualità, che non è funzionale solo
all’ emergere dellesbismo ma contribuisce in maniera determinante a decostruire
la ruolizzazione, a indicarne la matrice ideologico-politica, di costruzione
di subalternità di un genere all’altro. Nel 1975 Gayle Rubin in
“The trafhc in women. Notes on the ‘political economy’ of sex”, che circolò
anche in Italia già dal 1976, traccia una linea netta mostrando il carattere
profondamente sociale e costruito dell’ eterosessualità. Wittig e Rich, la
prima in Italia per molti anni forse “più citata che conosciutà’ (Spinelli
2002), la seconda centrale nella costruzione del movimento lesbico anche
nel nostro paese, sono entrambe fondamentali per la decostruzione della
naturalità del sesso e del genere. Wittig si oppone ad una lettura che basa i
canoni della differenza su un dato biologico, costruendo un soggetto donna
che dà uno statuto di innato e a priori all’eterosessualità. Dimostra che
questa differenza sessuale che emanerebbe dal corpo è la giustificazione
di un’ideologia che opera una classificazione arbitraria e gerarchizzata, e
scrive:
al contrario, ‘donnà e ‘uomo’ sono costruzioni politiche e ideologiche, funzionali
alla struttura di dominio, che mascherano il conflitto di interessi tra due classi, le
donne e gli uomini, ambedue prodotto di relazioni sociali. Classi che hanno ragione
di esistere solo perché esiste il conflitto, e che la composizione del conflitto
abolirebbe. Sfuggendo alla relazione sociale particolare con un uomo – e quindi

alla costruzione ideologica codificata proprio da questa relazione – la lesbica diventa
transfuga della sua classe. Non è più una donna, come gli schiavi neri che
fuggivano dalle piantagioni non erano più schiavi (Spinelli 2002).

Wittig asserisce che la categoria di sesso è politica e fonda la società come
eterosessuale, stabilendo come “naturale” la relazione alla base della società
attraverso la quale metà della società, le donne, vengono “eterosessualizzate”
e sottomesse (Wittig 1982). Anche nel suo pensiero quindi illesbismo
è il grimaldello che fa saltare l’ideologia della naturalità: le lesbiche, solo
perché esistono, svelano che considerare le donne come un gruppo naturale
è un costrutto ideologico, che non esiste nessun “gruppo naturale donne”.
Come per de Beauvoir, il corpo delle donne è una costruzione sociale
anche per Wittig che va però oltre, ponendo l’obiettivo dell’annullamento
della categoria di sesso e della conseguente cancellazione del secondo binomio:
eterosessualità-omosessualità.
Nel 1980 la pubblicazione di “The straight mind” e “On ne nalt pas femme”
catalizza, almeno in Francia, 1’esplosione di un conflitto, presente fin
dalla nascita del Mouvement de Libération des Femmes, tra eterosessuali e lesbiche,
fin dentro la redazione di Questions Féministes. Alcune femministe
cercano una base biologica dell’ oppressione o costruiscono mitici passati
ma il matriarcato non è meno eterosessuale del patriarcato, non è meno
binario. Wittig porta avanti le sue considerazioni anche sui movimenti
lesbici e femministi introducendo la necessità di distinguere tra chi lotta
per abolire la classe costituita dalle donne e chi si batte per “la donnà’ accettandone
la naturalizzazione come soggetto (Chetcuti 2009). In Francia
arrivano attacchi da Kristeva, Cixous e Irigaray, negli USA, dove Wittig si
trasferisce, “al suo ‘le lesbiche non sono donne’ fa la guerra proprio una
lesbica, Adrienne Rich” (Spinelli 2002) con la teoria del continuum lesbico,
che, al contrario, elabora una visione del lesbismo come soggettività femminile
ma, comunque, da altro punto di vista, contribuisce allo smantellamento
dello statuto di naturalità dell’ eterosessualità.
Rich pubblica nel 1980 “Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbicà’
che circola presto in Italia, pubblicato prima parzialmente su Effe, nel 1985,
integralmente sul DWF “nero”. In questo saggio Rich mostra la necessità
di agire contro 1’occultamento dell’ esistenza lesbica, operato sia nella società
patriarcale che negli studi femministi, perché non solo lesbofobico ma
anche antifemminista: la cancellazione del lesbismo colpisce le lesbiche e
sottrae a tutte le donne strumenti di lotta. Nascondere l’esperienza lesbica
significa, cioè, privare tutte le donne della consapevolezza della possibilità

di negare l’accesso maschile al corpo, di sottrarsi al contratto eterosessuale,
alla maternità, allo sfruttamento del loro tempo e del loro lavoro. Infatti
Rich, non esamina solo il lesbismo, ma esplora le diverse forme di resistenza
lesbica all’istituzione eterosessuale: il lesbismo, che costituisce un
attacco diretto alla pretesa maschile di accesso alle donne, ma anche il
continuum lesbico, cioè una serie di esperienze storiche e personali nelle
quali si manifesta “l’interiorizzazione di una soggettività femminile e non
solo il fatto che una donna abbia avuto o consciamente desiderato rapporti
sessuali con un’altra donna” (Rich 1980; trad. it. 1985: 26). Rich colloca,
quindi, il lesbismo nella prospettiva del continuum lesbico che unisce tutte
le donne che si allontanano dall’ eterosessualità obbligatoria e tentano di
sviluppare legami tra loro per lottare contro l’oppressione indipendentemente
dalla loro sessualità, e denuncia l’eterosessualità obbligatoria come
norma sociale resa possibile dall’invisibilizzazione del lesbismo, agita anche
all’interno del movimento femminista, a cui non risparmia un’aspra critica
– per lo meno a quella versione del femminismo che riconosce un unico
modello di donna in opposizione binaria all’uomo. Un discorso, questo
di Rich, che non può che essersi arricchito del portato del pensiero e delle
lotte delle lesbiche e femministe nere, di Audre Lorde in specifico, che
operano contemporaneamente una pari demistificazione.
Le riflessioni che ho sintetizzato sono state tradotte in lotte, parole d’ordine,
slogan dai movimenti delle lesbiche, negli USA come in Europa. In
Francia, per esempio, Marie Jo Bonnet racconta come, se il femminismo
del Moviment de libération des femmes ha provato a rimettere in discussione
tutto – il concetto di femminilità, la maternità, il matrimonio, il lavoro
gratuito, la coppia, il fallo centrismo – e se ha cercato 1’autodeterminazione
dei corpi attraverso la richiesta di aborto e contraccettivi liberi e gratuiti
e la rimozione della censura sul piacere, solo la presenza delle lesbiche ha
spostato anche le barriere sessuali tra etero e omosessuali e, per le etero
quindi, ha aperto le frontiere di un nuovo desiderio possibile. Ma soprattutto
sono le lesbiche, riunite sotto la sigla Gouines Rouges, in quel début
del movimento femminista in Francia, a rifiutare per tutte i ruoli di sposa
e di madre (Bonnet 2014).
In Italia potremmo parlare di molto, a partire dalla presenza delle lesbiche
nel movimento femminista prima ancora che nascano i gruppi autonomi,
qui mi limito ad un contributo teorico che ha rappresentato la rimessa in
discussione di certi presupposti del pensiero della differenza, in particolare
dei rischi di un nuovo essenzialismo.

Nel 1983 esce un fascicolo speciale di Sottosopra, rivista della Libreria delle
Donne di Milano, che apre un vasto dibattito. Il documento “Più donne
che uomini” che dà il titolo al numero, firmato dal Gruppo n. 4, propone
lo stato dell’ arte e la definizione dei nuovi obiettivi: un gruppo di donne
constata i guadagni ottenuti in un decennio di femminismo e misura
quello che manca, cioè il “modo di tradurre in realtà sociale l’esperienza,
il sapere, il valore di essere donne”, si ammette, quindi, la difficoltà nei
rapporti sociali e nel mondo “dove il meglio di noi non ha corso”. Non si
tratta di discriminazione, l’interesse è interrogare lo “scacco nelle prestazioni”
della vita sociale (Libreria delle Donne 1983). La rivista include poi
“Condizioni di lavoro: il mondo comune delle donne” di Adrienne Rich
ma non intero: mancano brani che approfondiscono lo specifico lesbico.
In risposta esce Il nostro mondo comune. Un contributo del CLI (Collegamento
fra le lesbiche italiane) al dibattito aperto dal Gruppo n. 4 di Milano.
Già nell’introduzione si sottolinea “l’agio dell’indeterminatezza” che si
sono prese le “milanesi” nello scrivere il testo discusso e si denuncia che il
testo “indica alla donna (e il singolare è significativo) percorsi culturalmente
androgini per potersi collocare [ … ] accanto all’uomo in questo spazio
di civiltà progettato dall’uomo”. Soprattutto si racconta che nei dibattiti
aperti dal Sottosopra verde “non c’è linguaggio né corpo per le donne lesbiche
presenti” (Il nostro mondo comune 1983: 14), riferendosi in specifico
alla due giorni romana svoltasi nel febbraio 1983, così si spiega la decisione
di formare un gruppo di lavoro tra Roma e Firenze che trasformi “la catena
intrecciata di omertà in un insieme di esistenze senza segreti silenzi bugie”
(ibidem: 16). Negli interventi a firma individuale si sottolinea che la costrizione
all’ eterosessualità causa la cancellazione del lesbismo ma parimenti
costringe tutte all’ eterosessualità, norma imposta con la violenza rispetto
a cui illesbismo è scelta di resistenza e, sebbene la paura della punizione
abbia impedito a molte di riconoscersi, è l’evidenza di una possibilità.


Ogni donna che, rivendicando liberamente il proprio diritto all’esistenza lesbica,
rompa il velo dell’ omertà eterosessuale è perciò una minaccia, è e lo è sempre stata
in rapporto di contraddizione irriducibile con il patriarcato in quanto evidente
messaggio alle altre donne di liberazione e riappropriazione del proprio corpo e
della propria esistenza autonoma. (ibidem: Raffaella: 18-19)

La lettura lesbica di “Più donne che uomini” mostra come, invisibilizzando
il lesbismo, è la sua stessa analisi ad esserne impoverita: cade nell’ errore
– o comunque ne evidenzia il rischio – di ancorarsi a una generica e
fantomatica condizione femminile. Il lesbismo militante di nuovo

fa daargine nel femminismo al rischio di parlare di una donna generica e unica
senza classe, posizionamento, corpo. Inoltre, ovviamente, propone la scoperta
che la sessualità non è né naturale né scelta, perché l’eterosessualità
viene data come “assoluto biologico e quindi esistenziale” (ibidem: Liana:
25). Il confronto tra lesbofemminismo e pensiero della differenza si approfondisce
con la critica del primo alla teoria dell’ affidamento che parte 

proprio dalla nozione di “disparità” introdotta nel Sottosopra: la critica rileva
l’essenzializzazione della soggettività femminile ricondotta al rapporto
madre figlia (Delia 1985) e prende le distanze dalla pratica della disparità
che “sotto sotto, è anche un discorso di potere, di emancipazione, di soldi,
di economia della vità’ (Ricerca lesbica 1986: 161).
Le lesbiche, nelle loro espressioni politiche radicali, hanno rifiutato posizionamenti
identitari organizzati intorno alla difesa o alla contestazione di
un genere, una sessualità, una razza, niente affatro naturali, bensÌ marcatori
ed effetti dell’ assegnazione di un posto specifico nell’ organizzazione
sociale. Questo è stato un contributo importante dellesbismo, indispensabile
oggi nella nostra cassetta degli attrezzi per riconoscere come ideologia
ciò che è spacciato per natura.
Nel presente è centrale non trascurare la ragnatela delle oppressioni e questo
mette fortemente in discussione gli orientamenti politici di una parte
dominante dei movimenti 19btiq occidentali che, occupandosi esclusivamente
dei rapporti sociali basati sulla sessualità, rischia di rafforzare prospettive
“gay-maschili-patriarcali”, bianche, di classe media. Senza nessuna
accusa verso queste politiche 19btiq, si tratta di vigilare affinché non si perdano
le connessioni tra le oppressioni legate alla sessualità e quelle legate a
genere, razza e classe (Falques 2009). Si tratta di non lasciare che prevalga
un’unica accezione di lesbismo come la elle di quella parte dei movimenti
19btiq che non ritengono inerenti alla propria azione i rapporti sociali legati
a classe, razza e persino genere.
Ancora oggi, infatti, è vitale l’intersezionalità antelitteram, del pensiero di
Audre Lorde, soprattutto nell’indagare come i corpi e le soggettività costruiti
dai sistemi di potere legati a genere, razza, sesso, classe siano caratterizzati
da processi analoghi, a specchio, e sottoposti a dispositivi repressivi
interconnessi. Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dall’irrompere
sulla scena pubblica di nuove soggettività eccedenti la norma – donne autodeterminate,
lesbiche, gay, trans, migranti – sopra le quali viene agito
un processo di “naturalizzazione”, al quale corrisponde, sul piano del dibattito
pubblico, la creazione di falsi allarmi sociali (la distruzione della

famiglia! Linvasione degli stranieri! Bambini tra le grinfie dei gay o rapiti
dalle rom … ) la risposta ai quali è autoritaria e securitaria. Quindi i corpi di
questi soggetti eccedenti che siano quelli a-normali, fuori cioè della norma
eterosessuale o quelli vietati dalle ordinanze amministrative, soggetti a
meccanismi di esclusione e marginalizzazione, o quelli scomparsi nei nuovi
lager di stato, i CIE, nella tratta sessuale, nella povertà diventano “corpi
del reato”, come li chiama Anna Simone (2010), cioè corpi e soggettività
da gestire attraverso inediti dispositivi di controllo sociale che producono
stigma e differenzialismo.
È necessario continuare a mostrare i modi in cui l’eterosessualità, come
ideologia e istituzione, costruisce e naturalizza la razza e la classe, oltre a
riaffermare la subalternità di un genere all’ altro riproducendo il proprio
primato; come ha mostrato Judith Burler, non è sufficiente la deviazione
dallo schema per intaccare questa norma tanto produttiva, e quindi per
potersi emancipare dalla complicità con un sistema, neoliberista, di esclusione,
marginalizzazione e sfruttamento.
Questi ultimi anni di lotte hanno chiarito come le norme e i dibattiti
sull’immigrazione rafforzino l’impianto patriarcale della cultura, proponendo
un accesso alla cittadinanza basato sul sangue o comunque sulla
nazionalità. Pertanto, porsi come antirazziste non è solo un atteggiamento
solidale, bensÌ la logica conseguenza di una lettura intersezionale del
presente: si tratta di lottare contro tentativi di interrompere militarmente
percorsi di autodeterminazione come quelli di chi migra, ma anche di ridefinire
la femminilità accettabile, “normale”, agita attraverso nuovi processi
di naturalizzazione della donna, condotti grazie a dispositivi legali
che danno il permesso a entrare nello spazio Schengen solo a chi esercita
il lavoro di badante o usufruisce del riconoscimento familiare: la donna
(migrante) torna a essere considerata esclusivamente come eterosessuale, e
colei svolge lavori di cura. D’altra parte, in quanto soggettività eccentriche
all’ eterosistema nell’ occidente, siamo chiamate ancora più direttamente in
causa attraverso il meccanismo dell’ orno nazionalismo che costruisce una
soggettività straniera sessista e omofoba attraverso l’equazione per cui i gay,
le lesbiche (ma anche le donne “libere”) sarebbero bianche e occidentali,
mentre maschi eterosessuali neri (islamici) sarebbero i barbari “attentatori”
di queste libertà, che popolerebbero l’altro mondo, che invaderebbe
il primo sotto le spoglie di migranti e poveri. Del resto è tra le strategie
principali dell’ occidente strumentalizzare soggettività femminili e lgbtiq
per giustificare politiche razziste e coloniali, dalle guerre “esportatrici di

democrazià’, al pinkwashing d’Israele, ali’ uso di concetti quali democrazia,
diritti umani e laicità usati per sostenere l’impianto della guerra al terrore e
delle politiche razziste, giocate su paradigmi securitari. Al riguardo tuttavia
la situazione italiana ha una sua specificità – ampiamente indagata nel convegno
Fuori e dentro le democrazie sessuali organizzato da Facciamo Breccia3
– nell’uso delle retoriche omonazionaliste senza peraltro che siano stati
concessi riconoscimenti giuridici alle soggettività lgbtiq né venga rimosso
l’imbarazzante gender gap: il divario fra genere e maschile in ambito sociale
e professionale. Ciò nonostante la situazione italiana, sulla scia americana,
tende a un uso strumentale delle retoriche dei diritti sessuali e, in specifico,
dell’ opposizione binaria ‘avanzato e democratico/arretrato e oppressore’
per mettere in atto politiche di razzializzazione e criminalizzazione delle
persone migranti.
Oggi la rivoluzione femminista nel Rojava, e la guerrilla delle truppe YPC
e YP], ancora criminalizzate come terroriste dall’Occidente, contro l’integralismo
religioso di ISIS rende ancora più vistosa la distanza tra le retoriche
e la realtà (Uiki 2014).
Chiude questo intervento un testo poetico che sottolinea la lotta lesbica
contro la naturalizzazione del genere, ripubblicato qui in ricordo di Moira
Ferrari, uccisa dal cancro nel 2008, autrice insieme a Olivia Pinto e Monica
Baroni del Manifesto delle lesbiche contro natura da cui è tratto.

Macchine lesbiche desideranti
Le lesbiche si vestono di colori cupi o acidi
le lesbiche idolatrano la propria automobile, anche la moto,
nei casi peggiori il camion
le lesbiche fumano
le lesbiche bevono
le lesbiche non fanno una vita sana
le lesbiche vivono di notte
le lesbiche vivono al chiuso di discoteche, di circoli politici,
nei casi peggiori delle loro case
le lesbiche vivono di parole spesso elettroniche
le lesbiche utilizzano giocattoli sessuali
le lesbiche si ornano con piercings e tatuaggi
le lesbiche si tagliano i capelli
le lesbiche si vestono

le lesbiche utilizzano freneticamente telefonini, fax, computer
le lesbiche praticano il sesso sicuro (o è quanto sperano le linee lesbiche)
le lesbiche amano intervenire sull’ambiente (dal bricolage alla politica)
le lesbiche abitano le città del loro tempo
le lesbiche sovvertono le leggi di natura
non dimostrano la loro età
si vestono da ragazzine
raramente si riproducono e quando lo fanno è spesso con mezzi non
ortodossi
vivono in formazioni affettive e sociali irregolari
LE LESBICHE, SEMPLICEMENTE CON LA LORO PRESENZA,
CHE LO VOGLIANO O MENO,
MODIFICANO LA REALTÀ.
LE LESBICHE SONO CREATURE ARTIFICIALI, NON PREVISTE
DAI PIANI,
LE LESBICHE NASCONO, FIGLIE DI LORO STESSE, NELLE
METROPOLI DELLA MODERNITÀ.
LA NATURA NON È LA LORO MADRE

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Note
Il termine ‘razzà è usato in questo contributo nella consapevolezza che la razza è solo
1’effetto di dispositivi di potere, le cui retoriche costruiscono il razzismo; in forza della
realtà del razzismo non ho utilizzato le virgolette a sottolineare l’imbroglio della parola
‘razzà.
2 Il l maggio del 1970, all’apertura del Second Congress to Unite Women a New York,
il collettivo Lavander menace, sale sul palco e distribuisce il documento The womanidentified-
woman per protestare contro l’invisibilizzazione del lesbismo operata dal
convegno.
3 Fuori e dentro le democrazie sessuali convegno organizzato dal Coordinamento Facciamo
Breccia a Roma, il 28 e 29 maggio 20 Il. Qui i documenti preparatori: http://
www.facciamobreccia.org/content/view/510/102/. Qui gli audio del convegno: http://
www.facciamobreccia.org/content/view/539/149/ (consultato il 14/02/2015).

Intersexioni: movimenti imperfetti dallesbismo al queer

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