per Befree 31 agosto 2017

Clotilde Barbarulli
La produzione industriale di felicità è un obiettivo – sottolinea il sociologo William Davies – sempre più affinato e raffinato del capitalismo: i padroni non vogliono da* subaltern* solo quello che riescono a estorcere con il lavoro, ma pretendono di controllare emozioni e cervello. Anche se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme ottocentesche, l’industria della felicità si propone di diffondere ottimismo nella società e nelle imprese. Gli algoritmi di analisi dei sentimenti sono al servizio di interessi economici. Così, per mascherare l’alienazione e far collaborare ciascuno/a con il sistema è stata istituita la figura dirigenziale dell’addetto alla felicità (Chief Happyness Officer) – ad es. Google – cioè uno che deve saper ‘fare squadra’, conoscere la vita privata dei /delle dipendenti e assicurare che il clima aziendale non accumuli in modo pericoloso focolai di malumore che possono diventare altro. Vengono in mente le parole ironiche di una canzone 1968 di Dario Fo ed Enzo Iannacci (“Ho visto un re”) sull’imperativo ad essere felici rivolto ai sudditi anche se defraudati di ogni bene: “e sempre allegri bisogna stare /che il nostro piangere fa male al re/ fa male al ricco e al cardinale/ diventan tristi se noi piangiam!”
Distogliendo l’attenzione da problemi economici e politici, il liberismo cerca di costruire un consenso ampio, facendo leva proprio sulla promessa di felicità a singoli/singole, senza più vincoli sociali, cercando di manipolare la mente per massimizzare i profitti. Le disuguaglianze crescenti, l’impoverimento, la riduzione degli spazi di libertà sono solo dettagli – si dice – destinati a scomparire, prima o poi, nonostante l’aumento concreto di disagi, violenze, conflitti.
Anche prima di questa industria, si è usata la promessa di felicità per rafforzare un modello di società: negli Stati Uniti e in Inghilterra la stampa nel 2007 e in anni successivi (Megan O’Rourke ‘Desperate Feminist Wives’ ecc.) suggeriva- sulla base di presunte indagini sociologiche – ad es. che le femministe sono meno felici delle ‘casalinghe tradizionali’, tema ripreso a intermittenza anche da noi- “Meno felici con il femminismo”, si sosteneva (E. Aldani, ‘Dibattiti postfemministi’ ecc.) : la femminista sembra sottrarre gioia proprio perché rifiuta di condividere un orientamento comune verso certe convenzioni e ruoli considerati buoni. L’infelicità segnala così la necessità di tornare a qualcosa che si è perso: come se ciò che si è perso, nel lasciarsi alle spalle una cosa o un’altra, sia proprio la capacità di essere felici. In altre parole la felicità diviene la difesa di qualcosa. Come afferma Simone de Beauvoir , “è sempre facile etichettare come felice la situazione in cui si vuol mettere le altre”. La promessa di felicità ha lo scopo – sostiene Sara Ahmed – di vanificare un desiderio sociale e anestetizzare la perdita di un possibile differente futuro. Il liberismo riesce a sfruttare e trarre profitto, all’interno dell’economia della promessa, ormai anche da tutte le soggettività prima stigmatizzate ed escluse.
Così la felicità viene localizzata in luoghi predeterminati, in particolare nel matrimonio e, nelle comunità coese di diversi: Nelle politiche culturali della felicità si raccomanda perciò che le comunità si integrino condividendo ‘attività’ come ad es. il calcio, ‘che condurrebbe fuori di ogni appartenenza etnica.
Perciò Ahmed – analizzando il film Sognando Beckham- sottolinea come il calcio si avvicini a quell’io ideale della nazione visto come un campo da gioco in cui può entrare chiunque grazie al talento, purché si allinei alla lealtà verso la nazione. Si può dire che la felicità sia – in generale – la ricompensa promessa per questo adeguarsi ai canoni della società,a un ideale fittizio di normalità. La promessa della felicità dirige la vita in determinati modi invece che in altri.
Ognuna/o di noi però non solo è interconnessa con gli altri e con il pianeta, ma ha il diritto di esprimere desideri diversi da quelli imposti dalle convenzioni: ignorando questo, la retorica della felicità, nelle sue varie forme, è solo un dispositivo per addomesticare la mente a favore del sistema e uno strumento di manipolazione a disposizione di esperti di marketing.
Per gli antichi filosofi la felicità coincideva con l’essere giusto, oggi si parla (cfr. Borgna, Bauman) di incrementare gli stati che rendono la vita degna di essere vissuta: ecco – fra le varie possibili costruzioni del significato – preferisco pensare al desiderio di felicità legato al concetto di vita buona elaborato da Butler, cioè una vita più vivibile per tutt* che si opponga alla distribuzione differenziale della precarietà e delle forme di disuguaglianza sociale. La felicità si gioca fondamentalmente nella relazione con gli altri/e, senza doversi allineare ai paradigmi dominanti: il suo ambito investe il nesso tra coscienza di sé e domanda di senso sullo stare al mondo e al mondo stesso. Guardare alla felicità – per me – non può che collocarsi in una prospettiva politica dell’esistenza.
Per questo ho scelto Fatou Diome che arrivata dal Senegal a Strasburgo, pur essendo ora una scrittrice affermata, non ha mai dimenticato il razzismo in Francia e le ingiustizie in Senegal, scandalizzando spesso la stampa borghese con le sue denunce pubbliche – esposte con ironia graffiante. Scandalizza perché ci si aspetta gratitudine da chi come lei è stata per così dire accolta e perché si vorrebbe che i/le migranti accettassero le regole del gioco, anche se stanno in periferie abbandonate, se sono senza lavoro ecc. Il multiculturalismo è inteso come un oggetto felice (Sara Ahmed), per cancellare gli effetti negativi legati al razzismo e alle diseguaglianze. Non si vogliono ammettere i fallimenti e le falle – in Europa – delle cosiddette politiche d’integrazione: la colpa è semmai dei singoli, non delle scelte istituzionali che creano precarizzazione e discriminazioni.
Già la scrittrice Calixte Beyala in una “Lettera di una Afro-francese ai suoi compatrioti” (2000) aveva scritto: «Io, donna nera e francese, non dispongo di alcun potere. Faccio parte di una minoranza invisibile rinchiusa in un sarcofago di silenzio»!
Di recente Fatou Diome in televisione ha dichiarato di avere il diritto di guastare il sonno dei potenti e di voler ricordare le utopie: Basta con l’ipocrisia, o ci arricchiamo insieme o affoghiamo tutti !! Si vedono i poveri che si spostano/emigrano, con i naufragi in mare, ma non vogliamo vedere i ricchi che saccheggiano i nostri paesi !! Ogni volta che permettiamo a delle persone di perdere dignità, sogni e speranze, anche noi le perdiamo.
Se il viaggio di chi emigra è drammatico e le peripezie tra sfruttamenti nei vari paesi di passaggio e leggi inique ovunque sono evidenti, Diome non dimentica chi resta e aspetta:
Nel romanzo “Celles qui attendent” seguiamo le vicende di chi è partito solo attraverso le rare notizie che danno alle madri, Arame e Bougra, e alle loro giovani spose, Daba e Coumba : «certe assenze- scrive Diome- possiedono le donne più di un amante presente». L’attesa però diventa lunga, estenuante : giorni, mesi, anni… in un contesto reso difficile anche dalle tensioni create dalla poligamia e dall’abbondanza di figli. Pure l’isola di Diome « rigurgita..di mogli di emigrati, circondate da marmocchi che consumano a credito facendo affidamento su un ipotetico vaglia ». Da noi, non tanto tempo fa, c’erano le vedove bianche con figli in perenne attesa del marito emigrato.
Le madri, nella miseria dell’Africa, spesso causata dall’Occidente, considerano – scrive Diome – i figli come un investimento per la famiglia e sono pronte a sacrificare la loro giovinezza. Con lo sfruttamento delle grandi società europee, ad es. nella pesca che depaupera le coste africane, cresce il miraggio della migrazione per la promessa della felicità/benessere in Occidente, mentre l’industria turistica « riversa ondate di turiste venute a risvegliare i loro corpi carenti di ormoni… e di vecchi patetici libidinosi in cerca di natiche nere e orde di nevrotici cultori di carne fresca », di « fiori schiacciati prima di poter sbocciare » : « l’Atlantico può lavare le nostre spiagge ma non la sozzura lasciata dalla marea turistica ».
Anche Fatou Diome parte dall’isola di Niodior, però non in modo clandestino, perché si sposa con un francese, ma il matrimonio naufraga subito ed iniziano così le sue difficoltà: è illegittima e questo nella cultura senegalese comporta particolari problemi di emarginazione e rifiuto, come denuncia anche in “Impossible de grandir”, raccontando le sofferenze e le umiliazioni subite, un passato doloroso, perciò non può tornare. La nonna ha “ tradito la tradizione” secondo cui avrebbe dovuto soffocarla dichiarando alla comunità una bambina nata morta. Invece l’ha protetta e accudita ma Fatou sentiva sempre – negli sguardi e nel comportamento della comunità – di dover espiare l’errore di essere nata: «a lungo il mio sorriso ha chiesto scusa», ma inutilmente, perciò parte per «andare a partorire se stessa, perché generare se stessa è la nascita più legittima».
Ero partita dopo «un matrimonio pomposo – racconta – che non lasciava presagire le burrasche future. .. partita con maschere, statuette, stoffe tinte e un gatto rosso tigrato, ero sbarcata in Francia nei bagagli di mio marito..eppure una volta a casa sua, la mia pelle offuscò l’idillio – i suoi volevano Biancaneve – il matrimonio fu effimero e il disagio tenace».
Si ritrova dunque da sola – mentre ‘si accanisce’ a proseguire gli studi – a fare la domestica e altri lavori malpagati pur di non rimpatriare, cercando di ‘riuscire’ per poter “fungere da previdenza sociale” per la famiglia, perché l’obbligo di assistenza è il “fardello più grosso” di chi emigra. Al fratello che la immagina “ben pasciuta”, «Come far capire invece la solitudine e la lotta per la sopravvivenza»?. Del resto il «Terzo mondo non può vedere le piaghe dell’Europa, accecato com’è dalle sue…»: «Non ero forse la fannullona ..che, scelto l’eden europeo, giocavo a fare l’eterna scolara a un’età in cui la maggior parte delle compagne d’infanzia coltivava un fazzoletto di terra e nutriva la numerosa prole?»
Perciò, come racconta in “Le ventre de l’Atlantique” l’unico libro tradotto in italiano con il titolo accattivante e riduttivo di “Sognando Maldini” – né il fratello Madické né gli altri le prestano ascolto quando, per un breve ritorno sull’isola racconta che nell’emigrazione – su momenti frammentati e frammentari di briciole di felicità- prevalgono i pericoli: «clandestini, senza un diploma né una qualifica, rischiate di fare a lungo una vita da cani, ammesso che abbiate la fortuna di non farvi pizzicare dalla polizia, sempre pronta a schiaffarvi su un volo charter».
Sono gli effetti negativi prodotti dal mito del calcio europeo per i ragazzini africani che come Madické ed i suoi amici seguono ossessivamente attraverso l’unica TV le partite di calcio, inframmezzate da pubblicità, un mondo “costruito a beneficio di chi ha denaro” e sognano di emigrare per poterne far parte: «Sfacciatamente la Coca-Cola viene a ingrossare il suo fatturato persino in quella contrada…dove l’acqua potabile è un lusso».
Fin dal primo libro “La préférence nationale” 2001 il linguaggio di Diome è tagliente nel narrare la difficoltà di chi emigra: sottolinea che nei vari lavori servili che le capitano, viene trattata come analfabeta e sessualmente disponibile solo perché di colore: da qui il titolo del libro che allude alla mentalità francese costruita sulla possibilità di abuso dell’altra, una tranquilla violenza, spiega, di molti datori di lavoro che insegnano o lavorano nei pubblici uffici. Come in Italia e altrove, aggiungerei
Anche in “Kétala” – che significa la spartizione dell’eredità – Memoria,restata sola in Francia, deve alla fine adattarsi a ballare in un locale per “infiammare” i clienti, unica donna di colore ammessa perché considerata «Una bomba africana con la musica nel sangue».
«Calpesto ormai da anni il suolo europeo …dove la speranza si misura dal grado di combattività – racconta – …ma quanti chilometri, giorni di lavoro, notti d’insonnia ancora mi separano da un ipotetico successo, che tuttavia è implicito per i miei sin dal momento in cui [sono partita]? Vado avanti con i passi appesantiti dai loro sogni, la testa piena dei miei». Perciò la notte scrive frenetica fantasticando: ”Amici non dormite, ho la testa che bolle! Passatemi la legna! Il fuoco deve alimentarsi. La scrittura è il mio pentolone da strega, di notte ci cuocio i sogni che sono ossi duri” .
Ricordiamoci che in Francia, come altrove, la donna è stata tenuta a lungo ai margini della cultura e relegata tra le pareti domestiche. Perciò l’ingresso in un sistema dominato dagli uomini è stato difficile e faticoso, dovendo prima vincere pregiudizi profondi e liberarsi – come scrive Virginia Woolf – dal peso dell’angelo del focolare: “un atto di audacia unico”, lo definisce Matilde Serao.
L’analogia interessante che Diome stabilisce fra scrittura e strega va inserita dunque nel contesto di esclusione della donna in particolare dalla tradizione letteraria.La scrittrice, a maggior ragione se di colore, ha dovuto in quanto tale affrontare sacrifici, tensioni e fatica per essere riconosciuta. E la figura della strega incarna la presa di potere (della parola) e della creatività da parte della donna.
Credo interessante ricordare che negli anni Novanta –durante la distruzione della Jugoslavia – scrittrici e filosofe come Ugresic, Drakulic e Ivekovic vennero chiamate “streghe” e denigrate dai giornali croati, un vero “rogo mediatico”, in quanto donne appunto che pensano, scrivono e osano opporsi al governo nazionalista “e a tutte le sue perversità”.
È quindi come una strega che Diome cura il suo processo di scrittura, il « pentolone » in cui mescola pensieri e immagini, quel « teatro invisibile, brulicante di fantasmi che porta in sé » insieme alla volontà di denuncia dei problemi in Europa e in Africa, e al suo desiderio di affermazione.
In un’esperienza di passaggi e lacerazioni come la sua, la scrittura diventa la cera calda da far colare entro i confini che, ovunque, si vuole costruire. La scrittura parla di una perdita, ma anche della capacità di lenire. È con le parole che Diome può far così emergere dalla memoria l’amata nonna-madre, i colori ed i ritmi della sua terra senza dimenticarne gli aspetti negativi specie per le donne – oppresse da mariti-feudatari convinti di «misurare la virilità dal numero dei figli», e loro «cieche o accecate corrono a sacrificarsi sull’altare della maternità, per la gloria di un dio che le ha fornite solo di ovaie per giustificare la loro esistenza».
Diome si sente ormai “radicata ovunque, esiliata sempre”, ma a casa «là dove l’Africa e l’Europa rinunciano al loro orgoglio e si incontrano, su una pagina piena delle mescolanze». Perciò preferisce «il violetto, colore temperato, miscuglio del rosso calore africano, e del freddo blu europeo. Chi crea la bellezza del violetto? Il blu o il rosso?». Del resto «nessuna rete potrà impedire alle alghe dell’Atlantico di navigare e di trarre il loro sapore dalle acque che attraversano», e lei vuole vivere e morire libera, come un’alga dell’Atlantico, scrivere la vita sulla cresta delle onde, in quel metaforico ventre che sembra alludere alla memoria di tragedie degli schiavi ieri, di immigrati oggi.
Nel desiderio di abitare la perturbante dell’essere straniera ovunque, emerge una ricerca di felicità, perché è il suo progetto di vita, perché sa che Madickè si è ormai sistemato all’isola grazie ai soldi inviati, mentre lei continuerà a scrivere ed a impegnarsi contro le ingiustizie, nella consapevolezza che la vita deve essere vivibile per tutt*.
Il dichiararsi “straniera ovunque” è un sottoporre a critica radicale l’ordine esistente costruito sulla contrapposizione ‘noi’/‘loro’, una trasgressione rispetto ai paradigmi dominanti, “peccato mentale grave” che, annullando tutte le frontiere, rifiuta ogni logica di dominio e di esclusione. Audre Lorde – figura della donna nera arrabbiata che, nella retorica della felicità, ostacolerebbe la comunicazione con le bianche – nel 1981 scriveva: «Usiamo tutte le forze, compresa la rabbia, per contribuire a definire un mondo dove tutti e tutte possano crescere liberamente senza ingiustizie e disuguaglianze». Una tale rabbia erotica, fondata sull’energia creativa di ogni donna, se condivisa, genera una trasformazione, non distrugge perché è al servizio del futuro. E oggi Arundhati Roy, figura di riferimento del movimento mondiale anti-gobalizzazione, esprime appunto con rabbia e ironia – come facendo eco a Diome, pur se in forme e contesti differenti – la necessità di una società che condanni e impedisca confini e discriminazioni. Il recente romanzo “Ministero della suprema felicità” segna il ritorno alla narrativa dopo saggi e pamphlet ma in realtà è un discorso politico mai interrotto. Roy infatti quando scrive e prende posizione sulle sopraffazioni esercitate dal governo indiano e dai capitali mondiali, svela le ombre più cupe del potere ieri e oggi ,e, al tempo stesso, volge lo sguardo verso un mondo diverso da realizzare qui ed ora.
Anijum musulmana, incarna nel libro la diversità di un corpo e di un sentire mutante: dalla Casa dei Sogni, abitata da una comunità di hijra – un’antica parola dall’alone sacro a significare «chi è prescelto dall’Onnipotente… un corpo nel quale abita un’Anima Santa» (che possiamo tradurre con transgender e transessuale, ma Roy non usa mai tali parole) – arriva – dopo il trauma della strage perpetrata contro i musulmani nel Gujarat – nel vecchio cimitero che sorge accanto a un ospedale e un obitorio. Quel territorio desolato – dove gli avvoltoi muoiono per avvelenamento di diclofenac, dato alle mucche affinché producano più latte per l’industria – diventerà una pensione e poi anche una impresa di pompe funebri che accoglieranno ogni dimenticata e ogni respinto, viva o morto che sia. Sono gli inconsolabili, a cui è dedicato il libro, che nessuno vede e ascolta perché le loro storie sono considerate senza valore. Ma Roy, come Diome, crede che ogni vita abbia valore. La ricerca della libertà individuale si lega alla ricerca della libertà collettiva, alla resistenza, al desiderio di felicità. Così un luogo marginale viene risignificato, e gli esclusi, anche animali feriti, sono al centro del racconto, a testimoniare come – nonostante i cruenti conflitti religiosi e sociali – la resistenza alla invivibilità sia plurale e incarnata nella precarietà dei corpi:
“Una volta che sei precipitato dall’orlo del burrone, com’è successo a tutti noi, – disse Anjum – non la finisci più di cadere. E mentre cadi, ti aggrappi ad altre persone che stanno cadendo..Questo posto dove viviamo, dove ci siamo creati una casa, è il posto di quelli che cadono”.
Dall’ingiustizia e dalla sopraffazione, che scandiscono la storia dell’ India contemporanea, si arriva così a una comunità, fragile e dolente, ma in crescita e rivolta al futuro, in cui il divenire dei corpi e del territorio s’intreccia, creando una rete di relazioni e pratiche che nascono dal confronto e dalla reciproca accettazione. Sembra delinearsi l’idea che le figure più abituate a difendersi e a reagire, come le ribelli, i dissidenti, le donne, chi è ai margini della società, possano esprimere la speranza di un’umanità futura che vuole chiudere con tutte le sperequazioni (di genere, classe, razza) che hanno da sempre infestato la storia del paese e del mondo. Non è surreale, vorrei notare, un cimitero abitato, se si pensa a quello del Cairo – di cui l’architetta palestinese Sandi Hilal fece vedere al Giardino un interessante video già nel 2005– perché è un fenomeno che dura da anni: una realtà urbana viva che sfida la normalizzazione di uno spazio pubblico, sempre più controllato e discriminante.
La diversità, che nel cimitero crea una poetica della relazione, è indagata in tutte le sue sfaccettature, diversità anche intesa come rappresentazione di un’India che non è quella scintillante che il potere ha voluto creare, esiliando i poveri, schiacciando le loro case con bulldozer, mentre «dighe gigantesche illuminavano la città come alberi di Natale e tutti – o meglio le persone considerate davvero tali – erano felici»…. Ma nelle paludi delle periferie industriali, dove erano stati “reinsediati” i poveri in eccesso, gli sfrattati , almeno quelli sopravvissuti, «l’aria sapeva di prodotti chimici e l’acqua era avvelenata».
Anjum, Tilo – che arriva dopo la prigione e la tortura da parte dei militari – Miss Udaya Jebeen Seconda, la bambina dalla pelle nero-azzurra, figlia di una maoista uccisa in combattimento e accolta come promessa del futuro, insieme a tutti gli altri/e, mostrano la possibilità di stare al mondo senza gerarchie ed esclusioni. È un libro di frontiere porose, nel superamento dei confini posti dai codici e dal potere, nell’oltrepassamento fra la vita e la morte, fra umani e animali praticando una particolare arte della felicità. L’accoglienza e la relazione sembrano l’unico modo per superare le frontiere della pelle, del sesso, delle religioni a favore di spazi al di fuori del linguaggio e del potere convenzionali. Una protesta polifonica in una realtà che – ricorda Roy – è il teatro della guerra quotidiana a intensità variabile che si combatte fra il mondo di sopra e quello di sotto, la “guerra dei ricchi contro i poveri”.
Sono le scrittrici e i poeti che possono raccontare le violenze dell’oggi – sostiene Roy – e le storie di chi viene privato/a del futuro. E Diome afferma che le artiste non hanno potere ma devono far sognare un mondo differente, perché il rispetto dei diritti umani non è negoziabile.
Si delineano così nelle scritture esaminate varie figurazioni abitate dal desiderio di una vita buona in contesti diversi ma ugualmente in conflitto con le frontiere dell’esclusione espresse da parole, muri di cemento e di preconcetti, leggi, politiche: sia in Roy che in Diome, consapevoli che l’ infelicità ha cause sociali e politiche precise, si esprime così una eccedenza irriducibile dei corpi che valicano limiti e confini assegnati, affermando il desiderio di spazi e modalità differenti di vita. Sono figure del desiderio che producono crepe in un sistema codificato ormai inaccettabile, attivando un progetto di felicità non omologata, perché richiede consapevolezza a volte anche dolorosa, in grado sia di inventare pratiche di trasformazione del mondo, sia di dar vita a nuovi immaginari.
Riferimenti bibliografici:
Ahmed, Sara, The Cultural Politics of Emotion, Edinburgh University Press, 2004
Beyala, Calixte, Lettre d’une Afro-française à ses compatriotes, Mango 2000.
Butler, Judith, A chi spetta una buona vita?, Nottetempo 2013.
Diome, Fatou,La préférence nationale, Présence africaine 2001
Diome, Fatou, Sognando Maldini, Edizioni Lavoro 2004.
Diome, Fatou, Kétala, Flammarion 2006.
Diome, Fatou, Celles qui attendent, Flammarion 2010.
Diome, Fatou, Impossible de grandir, Flammarion 2013.
Davies, William, L’industria della felicità. Come la politica e le grandi imprese ci vendono il benessere, Einaudi 2016.
Hilal, Sandi e Alessandro Petti, “La città dei morti del Cairo” video.
Lourde, Audre, “Usi dell’erotico: l’erotico come potere”, in: Sorella outsider, Il dito e la luna 2014.
Roy Arundhati, Il ministero della suprema felicità, Guanda 2017.

La retorica odierna della felicità e la narrativa di Fatou Diome

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